Mi chiamava Pikolo Jean Samuel con Jean-Marc Dreyfus
con 11 lettere inedite di primo Levi
Frassinelli Euro 17,00
Uno dei passi più significativi della letteratura sulla Shoah e, allo stesso tempo, la pagina forse più emozionante della prosa italiana del Novecento. Il “canto di Ulisse” è il cuore espressivo di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, un miracolo di disincanto storico e utopia, amaro e struggente.
Mi è capitato di leggere questo capitolo, ad alta voce e in italiano, di fronte a un gruppo di studenti tedeschi. Riuscivano a decifrare solo in parte la mia lingua, eppure, in silenzio assoluto, cercavano di afferrarne i suoni, per farli combaciare con la traduzione che avevano sotto gli occhi. Ed ecco che, forse aiutato dal mio piccolo spaesamento personale, si è ripetuta anche per me, nell’intimo – “come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio” – quella rivelazione d’identità che Levi scopre nei versi citati a memoria nel lager di Auschwitz: “fatti non foste a viver come bruti/Ma per seguir virtute e conoscenza”.
Quando poi ho provato a spiegare, a chi non aveva mai letto Dante, quanto quelle parole significassero per la cultura italiana ho percepito lo scarto, quasi incolmabile, tra la nostra tradizione e una dicibilità sopranazionale. Riuscire a ricordare il testo in maniera esatta ebbe, per Levi, un valore straordinario. Significò non essersi arreso all’abbrutimento, aver salvato, pur nell’orrore del campo, la dignità di chi sa conoscere e giudicare. Ma su Pikolo, l’eroe del “canto di Ulisse”, che effetto ebbero i versi danteschi? E’ lui stesso a raccontarcelo, oggi, in un libro di memorie steso assieme allo storico Jean-Marc Dreyfus.
“Sono diventato Pikolo - scrive Jean Samuel – nell’estate del 1944. Ero ad Auschwitz, nel campo di Monowitz, da tre mesi, quando Primo Levi mi diede questo nome, il mio nuovo nome”. Con una semplice “K”, l’aggettivo italiano fu trasformato da Levi in un segno dir riconoscimento, a un tempo affettuoso e ironico, per il giovane amico di origine alsaziana. Ma se Primo cominciò quasi subito a elaborare l’esperienza concentrazionaria in narrazione, Pikolo-Jean restò in silenzio per 36 lunghi anni.
Scampato ad Auschwitz, Jean tornò a prendersi cura della farmacia dei suoi avi, a Wasselonne, una cittadina ai piedi dei boschi, a una trentina di chilometri da Strasburgo. Nel dopoguerra la corrispondenza con Primo fu per lui il legame principale col passato e, solo negli anni Settanta, la fama ormai internazionale dell’amico lo trascinò in una rete di memorie pubbliche. Nel 1974 una troupe della RAI lo andò a intervistare in Alsazia, e infine, nel 1981, anche Pikolo cominciò a mettere per iscritto i ricordi delle sue esperienze di lager.
Nel libro, Jean confronta i propri ricordi con quelli così intensi e articolati di Levi. Si stupisce della sua memoria, ma talvolta lo coglie in errore e lo corregge. Sono racconti senza ambizioni di stile, lontanissimi dalla maestria dell’amico italiano, ma pure carichi di umanità e importanti per la loro attenzione ai dettagli.
Del resto, questo ebreo venuto dalla provincia francese e Levi avevano molto in comune. Non solo la formazione scientifica e la capacità di conservare uno sguardo oggettivo sul reale, ma anche la consapevolezza di discendere da due diaspore minori, addirittura marginali, eppure orgogliose delle proprie radici. Per Jean quella alsaziana, fatta di pochi nuclei sparsi per le campagne, e per Primo l’ebraismo piemontese, prudente e tenace.
Giulio Busi
Il Sole 24 ore