Da La STAMPA del 12 luglio 2008
In comune con il padre sembra avere soltanto la professione e il nome. Quel nome così ingombrante da averlo convinto, all'inizio della sua carriera, a rinunciarvi del tutto e a disegnare i primi progetti in forma anonima. Oggi, invece, Albert Speer, figlio dell'architetto preferito da Adolf Hitler e architetto a sua volta, sembra essersi lasciato alle spalle quei complessi. Al punto da aver scelto ora di inserirsi nel delicato dibattito che, da settimane, divide la città di Colonia. Dopo oltre trent'anni di scontri, concorsi andati a vuoto e progetti finiti nel dimenticatoio, la città renana ha deciso di costruire un museo ebraico. E di realizzarlo in pieno centro, in quella terra di nessuno tra il municipio e il Wallraf-Richartz-Museum in cui oggi non c'è nient'altro che un tendone bianco a coprire provvisoriamente gli scavi archeologici. Sotto, i resti delle mura romane e di una presenza ebraica più che millenaria.
La scelta del posto non è piaciuta però a tutti, a cominciare dal sindaco, il cristiano-democratico Fritz Schramma. Dopo aver avviato un concorso architettonico ed essersi detto «soddisfatto» del risultato, il primo cittadino ha cambiato posizione: il progetto vincitore, ha criticato, «riempie completamente lo spazio disponibile» e impedisce di vedere sia la facciata del municipio sia quella del Wallraf-Richartz-Museum, che ospita una delle maggiori collezioni d'arte antica e pittura tedesca dell’800. Insomma, il previsto museo ebraico è troppo grande e va spostato. E pazienza se a firmare il progetto è lo studio Wandel, Hoefer, Lorch + Hirsch di Saarbrücken, che si è guadagnato elogi in tutto il mondo per aver disegnato la nuova sinagoga di Dresda e quella di Monaco di Baviera.
A schierarsi contro Schramma è ora Speer junior. Il quale, nei quarant'anni trascorsi dai primi progetti anonimi, ha tra l'altro realizzato il piano generale per l'esposizione universale di Hannover del 2000, contribuito ad ammodernare Pechino in vista delle Olimpiadi e assunto una cattedra all'università di Kaiserslautern. Proprio a lui, inoltre, Colonia ha recentemente dato l’incarico di sviluppare il proprio piano urbanistico generale. «Quando si ha la fortuna di poter rappresentare proprio lì, tra il municipio e il Wallraf-Richartz-Museum, quasi 2000 anni di storia ebraica sul Reno, allora bisogna farlo», ha detto al quotidiano «Die Welt». Di più: «Il nuovo museo ebraico potrebbe diventare un altro magnete per Colonia».
Il figlio dell'architetto al quale Hitler aveva chiesto di ridisegnare completamente il volto di Berlino per trasformarla in Germania, capitale del mondo, e al quale dal 1942 aveva affidato il compito di rimettere in sesto la macchina industriale tedesca, non ha insomma dubbi: il museo ebraico non solo va costruito, ma va piazzato in pieno centro. «Quando uno ha un tesoro - ha sintetizzato Speer - lo mette in risalto, lo integra nel presente, vive con lui, lì, sul luogo; la storia non può essere semplicemente spostata».
Proprio la piazza del municipio costituiva nel Medioevo il centro del quartiere ebraico a Colonia, tanto che ancora oggi lì sotto sono conservati i resti di un antico Mikwe, un bagno rituale. A differenza di Berlino o Monaco, però, la città sul Reno non dispone di un museo ebraico. E questo nonostante la comunità ebraica di Colonia sia considerata la più antica al di là delle Alpi: la sua presenza è documentata per la prima volta in un decreto di Costantino del 321.
Alla fine, comunque, i piani potrebbero slittare. Responsabile del progetto è infatti un'associazione privata. La quale ha ammesso di non aver ancora raccolto i venti milioni di euro necessari per costruire il museo ebraico.
Sempre dalla STAMPA, un articolo sulla polemica suscitata in Germania dalla mancanza di domande sull'Olocausto nel test per ottenere la cittadinanza tedesca.
Ecco il testo:
Nel test che da settembre sarà obbligatorio in Germania per ottenere la cittadinanza tedesca manca la domanda sull’Olocausto. E la comunità ebraica è furibonda. Il test prevede 33 quesiti scelti da un catalogo di 320. Ce n’è persino uno sui pastori tedeschi, ma non c’è una sola parola sulla Shoah. Per Stephen Kramer, membro del Consiglio Centrale ebraico, l’omissione rappresenta «uno strano modo di interpretare la storia». E’ curioso, ha aggiunto, che «non si senta la necessità di mettere gli immigrati a confronto con la violazione nazista dei diritti dell’uomo». Il ministro dell’Interno, Wolfgang Schäuble, si è limitato a dire che «dagli immigrati non si può pretendere troppo». Kramer ha protestato anche per l’assenza dell’ebraismo nella domanda sulle religioni che più hanno influenzato la cultura europea, e in particolare tedesca. Nella scelta della risposte ci sono induismo, cristianesimo, buddhismo e islam. «E’ intollerabile che l’ebraismo venga semplicemente ignorato», ha detto. Ma il questionario, quantunque criticato anche da altri, al momento resta così com’è.
Un articolo di Elena Loewenthal sulla più recente letteratura sulla Shoah:
Per aderenza o contrapposizione, la fiction deve sempre fare i conti con la realtà. Non è mai pura utopia d'immaginazione, per quanto di ciò s'illuda tanto chi scrive quanto chi legge. L'invenzione è imitazione, nel bene e nel male.
La questione può essere scanzonata o di lana caprina. Diventa scabrosa quando c'è di mezzo la Shoah. Riprodurre? Creare? Fingere la verità o dare corpo alla fantasia? Di fronte allo sterminio non è che la fantasia si arrenda. Entrano in gioco, o forse dovrebbero farlo, altri freni inibitori. Lo scandalo di ciò che è accaduto si riproduce nell'approccio alla narrazione. Ma la distanza nel tempo stempera le emozioni e dà una vaghezza diversa al pensiero: la letteratura sulla Shoah sta cambiando. Di fronte al male assoluto, la conquista di una certa lontananza sembra rendere accettabile l'esplorazione più buia di quell'universo buio, in una sfiancante ricerca dell'eccesso. Come nel caso di Littell. O in Corpi e anime di Isabel Vincent (Garzanti editore, pp.258, € 17,50): un'oscura vicenda di prostituzione nel contesto storico dello sterminio, dove vittime e carnefici si incrociano.
L'altra via, dove il dolore è certo più sobrio e la scrittura prende una piega diversa, è quella di sottomettere la narrazione alla testimonianza. Sergio Anelli non è nuovo a un'idea di romanzo ibridato dalla realtà, dove finzione e documentazione storica interagiscono continuamente. Tenta ora questa strada sullo sfondo scabroso della Shoah in Unde Malum (Aragno editore, pp. 286, € 18). La scena del romanzo si apre infatti su uno sgomento vero, quello del professor Jsak, che è quasi rapito da un folle ansioso di fargli negare la Shoah - a lui che l'ha vissuta e ne è emerso. Il romanzo si snoda poi in una serie di quadri narrativi e storici che si intersecano - da Marzabotto a Dreyfus, Israele e la California.
Il collante del racconto, ciò che tiene insieme queste testimonianze, è per un verso la sofferta disillusione del fatto che il romanzo si deve arrendere a una realtà tanto più grande e in fondo inenarrabile. Per l'altro, vi è la ricerca del male. Del suo senso e di una coerenza impossibile. Questa ricerca è, come sa l'autore e come sanno soprattutto i suoi personaggi, una battaglia perduta in partenza. Ma è anche l'unico modo per continuare a narrare ciò che è stato: asciugando l'orrore, interiorizzandolo proprio nella consapevolezza della sua natura incomprensibile. Inafferrabile per sempre.
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