Da LIBERO dell' 11 luglio 2008, ripreso dalla rivista ATLANTIDE:
Proviamo ad approfondire la natura dell'ideologia. A un certo punto ho preso la decisione di riflettere sugli avvenimenti così come capitavano, scegliendo fra di essi quelli che mi sembrano gravi, importanti, sintomatici, e cercando di spiegarli. Questa sfida che ho lanciato a me stesso nasceva dall’insoddisfazione crescente che nutrivo nei confronti dell’informazione. Pur vivendo nel nostro mondo post-marxista e post-totalitario, avevo l’impressione, leggendo i giornali, di scontrarmi con l’ideologia e, addentrandomi in questo lavoro, credo di averne compreso il meccanismo fondamentale.
Prendiamo ad esempio, gli attentati dell’11 settembre: questi avvenimenti atroci hanno lasciato tutti a bocca aperta. Si è trattato di avvenimenti irriducibili a qualsiasi tentativo sistematico di spiegazione. Questo stupore carico di orrore non è durato però, almeno in Francia, che qualche giorno, una settimana al massimo. Molto in fretta ho avuto l’impressione che la realtà non fosse più riportata per ciò che era. I commentatori, riemersi dallo stupore, iniziarono a dire che gli Stati Uniti erano vittime della propria superpotenza, in altre parole, colpevoli di quanto era accaduto. Per qualche ora erano stati scossi da un atto che aveva rimesso in discussione la loro visione del mondo, perché quello che avevano designato, secondo lo schema di una sorta di lotta di classe internazionale, come “il nemico”, era stato colpito da un nemico che improvvisamente poteva sembrare ancora peggiore. Affermare che gli Stati Uniti erano vittima della loro superpotenza, era un modo per digerire l’avvenimento: l’ideologia ritrovava l’ultima parola.
Per comprendere la forza di questo meccanismo ideologico bisogna risalire molto indietro, a Jean Jacques Rousseau. Il pensatore svizzero (ed era un’innovazione metafisica straordinaria) disse: «Io odio la tirannia, la considero la sorgente di tutti i mali del genere umano». In questo modo dava al male un’origine non più naturale, ma storica e sociale. Il male non era più nell’uomo, ma nella società. Egli apriva così alla politica una carriera sconfinata, perché il suo scopo a questo punto diventava quello di eliminare il male dalla Terra. Collocando l’origine di tutti i delitti umani nel dominio. Essere roussoviani vuol dire poter sempre risalire al delitto originale e di questo pensiero restiamo oggi ampiamente debitori.
Gli Stati Uniti - l’ “Impero”, come dice Toni Negri - dominano quindi il mondo e l’origine del crimine dell’11 settembre è questa stessa dominazione. L’ideologia (...) assorbe il delitto reale nel delitto originale. In questo modo è possibile, ribaltando la situazione, fare delle vittime i colpevoli.
La tendenza spontanea dell’ideologia è quella di dividere gli esseri umani in due categorie: da un lato coloro che agiscono, che sono responsabili dei loro atti e quindi accusabili; dall’altro coloro che reagiscono: la causa dei loro atti rimane esterna a loro stessi e sono dunque innocenti. (...) La sociologia dominante oggi s’inscrive nel quadro di questa distribuzione roussoviana dei ruoli e spiega le azioni umane attraverso il loro contesto. (...) Questo principio ha alimentato certamente il marxismo, ma è in grado di sopravvivergli: ecco perché, dopo molti anni dal crollo del Muro, siamo soggetti alla tentazione dell’ideologia.
Abbiamo la tendenza a erigere sistemi che in qualche modo integrino, assorbano ciò che li contraddice. C’è una straordinaria resistenza dei sistemi ai fatti finiti. (...) E oggi, il pensiero sistematico nega il male, o meglio, il male a un certo stadio sociale. Si parla di peccato originale nel senso di crimine originale. C’è un crimine dell’ineguaglianza, ci sono le oppressioni sociali, gli oppressori e gli oppressi, che non fanno altro che mettere in rilievo la violenza. Dunque, questo pensiero sistematico è tanto più difficile da combattere, quanto più è convinto di essere il pensiero più coerente, più giusto, che vede più lontano. Così, i sociologi conoscono i risultati prima ancora di aver realizzato delle ricerche.
Una caratteristica dell’ideologia è la sua incapacità di contare al di là del numero due. È lo schema dell’alternativa unica. Prendiamo il problema ebreo. Dunque, in un universo costituito e al tempo stesso spopolato dalla memoria, ci sono da un lato gli ebrei e dall’altro i nazisti. Ed ecco che gli ebrei d’Israele, o i Sionisti, finiscono per essere accusati di occupare esattamente il posto dei nazisti, perché la memoria ha ridotto la pluralità umana a questa esclusiva opposizione binaria. (...)
La seconda Intifada, a differenza della prima, è stata la reazione a una proposta di pace. A Camp David i palestinesi hanno risposto con un’Intifada che non è stata una rivolta di pietre, ma una rivolta armata. E questo ha reso sgomenti i sostenitori della pace nel campo israeliano. Israele oggi non è un Paese conquistatore, è un Paese disperato, che pensa che tutto sia stato tentato e che nulla possa ormai servire; che la guerra sarà forse eterna. Con questo non voglio dire che l’attuale politica israeliana non sia criticabile. Ma strappare il conflitto israelo-palestinese all’ideologia per restituirlo alla politica significa rendergli la sua singolarità di avvenimento, uscire dal cliché binario: non c’è la potenza da un lato e la sofferenza e l’innocenza dall’altro; i palestinesi non sono gli ebrei di Israele. Ci si può opporre ad una certa politica, ma senza ricadere nell’ideologia e nel suo manicheismo.
(...) Ciò che anima l’uomo moderno, in verità, è un desiderio - che ha una sua grandezza - di controllo totale della realtà. Esso si esprime attraverso il “principio di ragione”, la speranza di una coincidenza tra reale e razionale. (...) Questo desiderio, che si esprime ad esempio nella formula “scientia propter potentiam”, la scienza per il potere, ha come finalità un miglioramento delle condizioni degli uomini. È la figura di Prometeo, colui che non si rassegna mai. I comfort di cui godiamo oggi e l’allungamento della vita sono cose di cui siamo debitori al movimento moderno.
Dunque, alla base della modernità c’è una sorta di risentimento contro il mondo così come è donato, un risentimento nei confronti del dato. E rischiamo di vivere in mezzo ai nostri “prodotti”. Si dice per esempio di un contadino, che è un “produttore” di suini: è la ricaduta nel linguaggio di un potere demiurgico, moltiplicato dalle nuove tecnologie. Allo stesso modo stiamo diventando sempre più capaci di “fabbricare”, di “produrre” i bambini. Hannah Arendt ha fatto della nascita il paradigma ontologico dell’evento. Ricorda, in questo straniamento della condizione dell’uomo moderno, la formula biblica «un bambino per noi è nato», dandone una sorta di traduzione secolare, laica: il bambino è un miracolo. Avvertiamo che l’utopia iper-moderna sta avendo di gran lunga la meglio sui miracoli. L’uomo è destinato a vivere in mezzo ai propri prodotti, o può ancora riconoscere ciò che è dato? Credo che dobbiamo sentirci invitati a questo tipo di conversione e di cui la poesia ha sempre parlato. La poesia è sempre un rendere grazie, un essere riconoscenti e ha sempre mantenuto un sottile filo, una voce impalpabile in mezzo ai nostri exploit tecnologici, che dovremmo essere capaci di intendere prima che sia troppo tardi.
Che siamo atei o credenti, credo che dovremmo essere d’accordo su questo: l’uomo non deve credersi Dio...
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