Intervista in ginocchio al dittatore di turno. Questa volta si tratta di Bashar Assad, poeticamente ribattezzato "leoncino di Damasco". Il giornalista è Alain Gresh
L'inizio è da manuale del genere. Gianni Minà con Fidel Castro non avrebbe potuto far meglio:
Ci riceve sulla porta, all'entrata di una casa a un piano sulle colline intorno a Damasco. Nessun protocollo, nessuna misura di sicurezza; non siamo perquisiti e i nostri apparecchi di registrazione non sono controllati. «Questa è la casa dove leggo e lavoro. C'è solo questo salotto, una sala conferenze e una cucina. E ovviamente internet e la televisione. Anche mia moglie Bassma ci viene spesso. Qui riesco a essere produttivo, al palazzo presidenziale è diverso».
Alla fine ne emerge, prevedibilmente, il ritratto propagandistico di un uomo di pace.
Ecco il testo, dal MANIFESTO dell'11 luglio 2008 (che riprende da Le Monde Diplomatique)
Ci riceve sulla porta, all'entrata di una casa a un piano sulle colline intorno a Damasco. Nessun protocollo, nessuna misura di sicurezza; non siamo perquisiti e i nostri apparecchi di registrazione non sono controllati. «Questa è la casa dove leggo e lavoro. C'è solo questo salotto, una sala conferenze e una cucina. E ovviamente internet e la televisione. Anche mia moglie Bassma ci viene spesso. Qui riesco a essere produttivo, al palazzo presidenziale è diverso». Nel corso di queste due ore, il presidente affronta tutti gli argomenti e non elude alcun soggetto. Dimostra un piacere evidente ad affrontare la discussione e gesticola con le mani per rafforzare i suoi argomenti.
Alla vigilia della sua visita in Francia, il presidente Bashar Al Assad è fiducioso, disinvolto, loquace. L'isolamento imposto alla Siria da Washington e dall'Unione europea da circa quattro anni si sta sfaldando. L'intesa fra il governo e l'opposizione libanese nel maggio 2008 ha permesso di voltare pagina. «La posizione della Siria è stata fraintesa e il nostro punto di vista è stato deformato. Ma l'accordo sul Libano ha riportato la gente alla realtà. Si deve capire che siamo parte integrante della soluzione della crisi in Libano, così come in Iraq e in Palestina. Si ha bisogno di noi per combattere il terrorismo e per arrivare alla pace. Non possiamo essere isolati, né risolvere i problemi della regione manipolando parole come "bene" e "male", "nero" e "bianco". Bisogna negoziare, anche se non si è d'accordo su tutto».
Mentre viene annunciata la prossima costituzione di un nuovo governo libanese, come vede Assad il futuro delle relazioni con Beirut? «Siamo pronti a risolvere i problemi rimasti sul tappeto. A partire dal 2005 abbiamo scambiato delle lettere sulla delimitazione delle frontiere, ho anche dichiarato all'epoca al presidente libanese Emile Lahud e al primo ministro che eravamo disposti ad aprire un'ambasciata a Beirut. Ma per fare questo ci devono essere delle buone relazioni e così non è dopo le elezioni del 2005». Il presidente Assad temeva infatti che il Libano si trasformasse in un centro di destabilizzazione del regime siriano. Ormai questo timore sembra fugato e la Siria potrebbe ristabilire delle relazioni diplomatiche con il Libano.
Dubbi sull'Unione mediterranea
Domenica Bashar Al Assad parteciperà alla cerimonia inaugurale dell'Unione per il Mediterraneo a Parigi, cosa che non gli impedisce di esprimere alcuni timori sul progetto. Quando il progetto euro-mediterraneo è stato lanciato nel 1995, spiega il presidente siriano, alcuni responsabili europei «pensavano che lo sviluppo di relazioni economiche fra i partecipanti avrebbe contribuito alla pace. Ma perché questo sia possibile, deve esistere un processo di pace». Era il caso nel 1995, non è più così oggi: «Se non si avvia un dialogo politico, cioè se non si affrontano i veri problemi, se non si fanno passi verso la pace, non vi sarà posto per alcuna iniziativa, che si chiami mediterranea o con un altro nome». Assad mette in guardia contro un nuovo fallimento, «perché in questo caso la fiducia verrà meno per molto tempo e le nostre società si indirizzeranno verso il conservatorismo e l'estremismo».
Questa idea lo ossessiona e vi torna sopra più di una volta. «Il terrorismo è una minaccia per l'intera umanità. Al Qaeda non è un'organizzazione, ma uno stato d'animo che nessuna frontiera può fermare. Dal 2004, dopo la guerra in Iraq, abbiamo assistito in Siria allo sviluppo di cellule qaediste senza collegamenti con l'organizzazione, ma che si alimentano di pubblicazioni, di libri e soprattutto di tutto quello che circola su internet. Ho paura per il futuro della regione. Dobbiamo cambiare il terreno che alimenta il terrorismo, e per fare questo dobbiamo sviluppare l'economia, la cultura, il sistema educativo, il turismo - e anche lo scambio di informazioni fra i paesi sui gruppi terroristici. L'esercito da solo non può risolvere questo problema. Gli americani se ne stanno rendendo conto in Afghanistan».
Che cosa spera per il suo paese fra cinque anni? «Che la nostra società diventi più aperta, che la nuova generazione sia moderna come lo è stata quella degli anni '60. E che sia anche più laica in un ambiente regionale più laico». Una confessione franca, che testimonia la crisi profonda delle società arabe.
E che permette di capire meglio perché la pace è più necessaria che mai per il presidente siriano. Dal 2003 Assad ha moltiplicato le dichiarazioni sulla sua volontà di riprendere il negoziato con Israele. Dopo la guerra del Libano del 2006, Assad si ha preso le distanze dalle dichiarazioni del presidente iraniano Mohamed Ahmadinejad: «Non dico che Israele debba essere cancellata dalla carta. Noi vogliamo la pace con Israele» (Der Spiegel, 24 settembre 2006). La risposta iniziale di Sharon e quella successiva di Ehud Olmert è stata negativa. Tuttavia nel maggio 2008 Tel Aviv e Damasco hanno annunciato l'avvio di negoziati indiretti sotto l'egida di Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro turco.
Perché questa svolta?
«La guerra del Libano del 2006 ha fatto capire a tutti che non si può risolvere un problema con la guerra. Israele è la più grande potenza militare della regione e gli hezbollah un esercito minuscolo. E che cosa ha ottenuto Israele? Nulla». Il presidente ricorda che dopo questa guerra molte delegazioni americane vicino alle posizioni israeliane sono andate a Damasco. Nel dicembre 2006 la commissione Baker-Hamilton ha raccomandato l'adozione di un dialogo fra Washington e Damasco, e nell'aprile 2007 Nancy Pelosi, presidente della Camera, ha incontrato Assad. «Tuttavia, continua il presidente siriano, il più grande ostacolo alla pace è l'amministrazione americana. Per la prima volta un'amministrazione ha raccomandato a Israele di non impegnarsi sulla strada della pace».
Assad è consapevole che questa pace non potrà arrivare domani; ricorda che l'opinione pubblica israeliana, se si deve dare credito ai sondaggi, è contraria a una restituzione totale del Golan. «Dopo otto anni di paralisi , dopo la guerra contro il Libano, dopo gli attacchi contro la Siria, la fiducia non esiste più. Quello che facciamo in Turchia è mettere alla prova le intenzioni israeliane e la cosa è probabilmente reciproca». Il bombardamento da parte di Israele di un sito siriano - a carattere nucleare secondo Tel Aviv - all'inizio di settembre 2007 non ha però interrotto i rapporti fra le due parti e il presidente Assad sembra sereno: un'équipe dell'Agenzia internazionale dell'energia atomica (Aiea) ha visitato il sito interessato ed è convinto che non abbia trovato alcuna prova di un'attività nucleare illegale siriana.
Come rilanciare negoziati diretti e seri fra Israele e Siria? «Vogliamo essere sicuri che gli israeliani siano pronti a restituire l'insieme del Golan; vogliamo anche fissare le basi comuni del negoziato, cioè le risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza, oltre ai grandi temi da esaminare: frontiera, sicurezza, acqua e relazioni bilaterali».
Il presidente sa che il negoziato comporterà l'intervento di un potente mediatore, gli Stati Uniti, cosa che presuppone l'arrivo di un nuovo presidente all'inizio del 2009. Ma nel frattempo bisogna andare avanti. In occasioni dei negoziati fra Hafez Al Assad ed Ehud Barak (all'epoca primo ministro israeliano) nel 1999-2000, numerosi passi avanti erano stati fatti sugli argomenti più delicati. «In passato ho detto che l'80% dei problemi era stato risolti. Era un ordine di grandezza. Se dovessimo ripartire da zero, come vuole oggi Israele, dovremo ancora perdere del tempo. Vorremmo che la Francia e l'Unione europea incoraggino Israele ad accettare il risultato dei negoziati del 1999-2000». In diverse occasioni Assad ha espresso la speranza che la Francia e la Ue svolgano un ruolo complementare a quello degli Usa. A parte la determinazione siriana di riprendere tutto il Golan, si ha l'impressione che si voglia arrivare a un compromesso. Sulla sicurezza, ad esempio, Israele chiedeva nel 2000 che una stazione di allerta rimanesse sotto il suo controllo in territorio siriano, una proposta inaccettabile per Damasco, che non può permettere una presenza militare israeliana sul proprio territorio. Alla fine le due parti sono arrivate a un accordo: dei militari americani sarebbero presenti in questa stazione.
Rompere con l'Iran?
Numerosi responsabili negli Usa, in Francia e in Europa sperano che i negoziati israelo-siriani spingeranno Damasco a rompere le relazioni con Teheran. La risposta del presidente è prudente. «Siamo stati isolati dagli Stati Uniti e dagli europei. Gli iraniani ci hanno sostenuto e adesso dovrei dire loro: non voglio il vostro aiuto, voglio rimanere isolato!», dice Assad ridendo, per poi riprendere più seriamente: «Non abbiamo bisogno di essere d'accordo su tutto per avere delle relazioni. Ci vediamo regolarmente per delle discussioni. Gli iraniani non cercano di modificare la nostra posizione, ci rispettano. Prendiamo le nostre decisioni, come ai tempi dell'Unione Sovietica». E insiste: «Se si vuole parlare di stabilità, di pace nella regione, bisogna avere delle buone relazioni con l'Iran».
La stabilità regionale e la pace non sono un fine a sé stante, ma per il presidente Assad creano un contesto che permette di affrontare i veri problemi. «La nostra prima priorità è la povertà. I poveri se ne infischiano delle dichiarazioni o di sapere qual è il nostro punto di vista su questa o quella cosa. Vogliono cibo per i loro figli, delle scuole, un sistema sanitario. Per questo abbiamo bisogno di riforme economiche. Le riforme politiche vengono dopo».
La crescita economica della Siria è passata da circa l'1% annuo, quando Bashar Al Assad è diventato presidente, al 6,6% nel 2007. Ma questo non basta ad assorbire le centinaia di migliaia di giovani che arrivano ogni anno sul mercato del lavoro. Milioni di siriani vanno a cercare un lavoro all'estero. Il presidente afferma che è in corso una liberalizzazione dell'economia, che l'apertura del settore bancario ha portato grandi benefici, che gli investimenti del Golfo Persico non sono mai stati così importanti e così via.
I prigionieri politici
E le riforme politiche? Il presidente affronta questo argomento in modo più convenzionale e spiega i «ritardi» con la situazione contingente. In sostanza afferma che la Siria si è trovata di fronte due minacce: l'estremismo alimentato dalla guerra in Iraq e i tentativi di destabilizzazione seguiti all'uccisione di Rafik Hariri nel 2005. A quell'epoca si stava preparando una nuova legge sui partiti politici, ma il presidente dice di essere stato costretto a rimandarla. Con il rinnovo dell'amministrazione americana «il 2009 sarà l'anno in cui potremo avviare serie riforme politiche, a condizione che nulla di grave avvenga nella regione, che non si parli più di guerra e che l'estremismo sia sempre meno accentuato».
E i prigionieri politici? «Centinaia sono stati liberati prima e dopo il mio arrivo al potere - dice -. Abbiamo più di mille persone arrestate per terrorismo, vuole che le liberiamo?».
Parliamo di Michel Kilo, un intellettuale arrestato nel maggio 2006 e condannato a tre anni di prigione per aver contribuito a «indebolire il sentimento di unità nazionale». Questo dissidente non ha mai raccomandato né fatto ricorso alla violenza. «Ma - precisa - ha firmato una dichiarazione comune con Walid Jumblatt , il quale due anni fa aveva chiesto apertamente agli Usa di invadere la Siria e di sbarazzarsi del regime. In base alle nostre leggi Jumblatt è diventato un nemico e chi lo incontra va in prigione. Perché Michel Kilo possa essere liberato è necessaria una grazia presidenziale, che sono pronto ad accordargli purché riconosca il suo errore». Né le ripercussioni negative per la Siria per la prigionia di Kilo né il fatto che lui si dichiari nazionalista e ostile alla politica americana riescono a far cambiare idea al presidente.
Evocando le speranze nate con la sua elezione nel 2000 e quella che era stata chiamata la «primavera di Damasco» - una sorta di disgelo politico - il presidente Assad parla di illusioni: «Non possiamo cambiare le cose in poche settimane». E aggiunge: «Non si possono cambiare le regole mentre si gioca a scacchi. Le regole sono quelle e vanno rispettate. Per mettere in pratica una vera riforma avremo bisogno di una generazione».
Sul futuro del paese, Assad è realistico: «Non sono l'unico a guidare la barca, ci sono molti capitani, europei, americani. Vedremo».
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