Lizzie Doron al museo ebraico di Bologna 09/07/2008
Bologna, 8 luglio 2008
Mi takhat le Maghen David, Sotto la Stella di Davide, è il titolo del Festival di Letteratura israeliana che il Museo Ebraico di Bologna ha organizzato in occasione del 60° anniversario dello Stato di Israele.
Il Festival arricchito da un concerto musicale del sestetto New Old Klezmer Ensemble e dalla proiezione del film Meduse dei registi Etgar Keret e Shira Geffen, ospita autori della nuova generazione che rappresentano nelle loro opere registri differenti rispetto al passato, in equilibrio tra tradizione, identità e multiculturalismo.
Quella israeliana è una letteratura straordinariamente vivace specie se rapportata a un piccolo paese caratterizzato da conflitti dove vive una società eterogenea, piena di contraddizioni ma pervasa da un’inesauribile voglia di vivere.
Il successo ottenuto dal Salone del Libro di Torino, nonostante le polemiche che lo hanno accompagnato, dimostra come la letteratura israeliana sia apprezzata in Italia e come un gran numero di lettori italiani si accostino ad essa con crescente entusiasmo affrontando anche scrittori finora poco conosciuti.
Un esempio era il pubblico intervenuto ieri sera nel Cortile del Terribilia presso la Pinacoteca bolognese per ascoltare Lizze Doron, autrice di un originale libro sulla Shoah intitolato “Perché non sei venuta prima della guerra?” pubblicato dalla casa editrice Giuntina che ha il merito storico di aver fatto conoscere al pubblico italiano romanzi e saggi di letteratura ebraica ed israeliana.
Dopo aver vissuto a lungo in un kibbutz sulle alture del Golan, Lizze Doron è tornata ad abitare nella sua città natale, Tel Aviv. I suoi libri apprezzati dal pubblico e dalla critica hanno vinto vari premi tra cui il premio Jeanette Schoken nel 2007.
Dei cinque libri che l’autrice israeliana ha pubblicato “Perché non sei venuta prima della guerra?” è l’unico apparso in Italia ed è la storia sconvolgente di una madre, Helena, sopravvissuta ad un campo di sterminio, emigrata in Israele dove vive con la figlia Elisabeth, in realtà l’autrice stessa. Nel libro, una via di mezzo fra saggio, romanzo, e memoir, la scrittrice affronta il tema dell’Olocausto senza mai parlarne espressamente con una prosa scarna ma efficacissima, attraverso le sofferenze della protagonista Helena: una donna straordinaria, sconvolgente, fuori da ogni regola che butta dalla finestra ogni regalo ricevuto dalla figlia se “made in Germany”, che rifiuta con caparbia i risarcimenti provenienti dalla Germania e che nel giorno di Yom Kippur si reca in sinagoga per rivolgere a quel Dio nel quale non crede più parole infuocate.
Come è nato questo libro straordinario?
E’ l’autrice stessa a raccontarcelo. Il suo mondo era occupato dagli studi universitari e dalla preparazione del dottorato in Scienze cognitive e certamente non aveva mai pensato di diventare scrittrice.
Il caso ha voluto che la figlia quattordicenne si rivolgesse a lei per un aiuto su un progetto scolastico chiamato “Radici” per il quale i giovani studenti israeliani devono raccontare la storia della propria famiglia.
Doron, che è cresciuta senza padre e in un quartiere povero a sud di Tel Aviv, non conosceva “storie” con le quali aiutare la figlia. Decise quindi di prendere un periodo di congedo dall’Università e dedicarsi a questo progetto: lavorare sui ricordi personali perché era l’unica cosa di cui disponeva: da quei ricordi è nato il libro.
Un tema ricorrente nel romanzo è la “vergogna” dei sopravvissuti, un imbarazzo che porta ad esempio le quattro amiche di Helena a ritrovarsi ogni settimana in una casa illuminata solo dalle candele per rievocare il loro passato, isolandosi dal mondo che le circonda.
Doron ripercorre la sua esperienza personale di bambina che ha cercato di costruirsi un’identità nuova per affrontare l’imbarazzo che le causava vivere e andare a scuola in Israele come figlia di genitori scampati alla Shoah.
“Israele – continua la scrittrice – voleva essere un paese nuovo, popolato da gente più forte e coraggiosa di quei poveri sopravvissuti ed io cercavo di adeguarmi ai nuovi valori, ai sogni di quella nazione in divenire. Il comportamento dei superstiti come mia madre era bizzarro (a volte parlavano con gli animali) al punto da risultare inaccettabile per una bambina. Inoltre la grande confusione che albergava nel suo animo la induceva a comportamenti bislacchi: da una parte leggeva letteratura tedesca a dimostrazione che il suo amore per l’Europa non era spento, dall’altro mi conduceva in alcune chiese (sebbene fossimo ebree) e profferiva una sequela di invettive in yiddish affermando che Dio aveva sempre preferito i cattolici agli ebrei!”.
Israele è un paese dove si vive ad una temperatura politica e sociale “molto alta” e probabilmente esiste un nesso fra questo clima e la qualità della sua letteratura.
Lizze Doron ne è convinta e concorda con l’affermazione di David Grossman: “Israele è un paradiso per gli scrittori”. La storia così ricca di questo piccolo paese e gli avvenimenti drammatici che lo hanno caratterizzato sono uno dei principali motivi della ricchezza della letteratura israeliana, riconducibile anche alla mentalità del suo popolo e ai drammi che ha attraversato.
Per esprimere i motivi che portano gli scrittori a raccontare la loro storia e a condividere le loro esperienze di vita con il mondo, Doron utilizza una metafora originale ma efficacissima.
“Israele è un colossale ospedale dove i pazienti, tutti ebrei, soffrono di una crisi post traumatica. In questo ospedale ci sono tre reparti: il primo è quello degli psicotici che aspettano di essere salvati dal Messia; il secondo è il più grande e contiene la maggioranza dei pazienti, quelli come me che cercano di sopravvivere seppur pervasi da profonda inquietudine; il terzo reparto è costituito da coloro che credono che Israele non sia il posto adatto a loro. Tutti questi pazienti scrivono delle “lettere” al mondo sulle circostanze della loro esistenza, sui loro sogni e aspirazioni. Quelle lettere non sono altro che le belle narrazioni che leggete nei nostri libri”.
Insieme agli altri romanzi che ha pubblicato – uno dei quali racconta le storie di alcuni amici morti durante la Guerra del Kippur – Lizze Doron è convinta di aver scritto un unico lungo libro, una catena di esperienze ebraiche che partendo dall’Europa attraverso la Seconda Guerra Mondiale finisce in Israele per aprirsi ad un futuro che la vedrà, con l’ultimo romanzo, tornare in Germania e in un certo senso “chiudere un cerchio”.