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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.07.2008 Icona del male
un libro sul muftì di Gerusalemme e primo capo del terrorismo palestinese, Haji Amin al-Husseini, riapre il dibattito sull'islamofascismo

Testata: Corriere della Sera
Data: 09 luglio 2008
Pagina: 39
Autore: Ennio Caretto
Titolo: «Islamisti eredi del fascismo. E del comunismo»
L'articolo di Ennio Caretto sul libro "Icona del male", (biografia del muftì di Gerusalemme Haji Amin al-Husseini) e sul dibattito sul concetto di islamofascismo riporta critiche serie, come quella di Daniel Pipes che sottolinea i legami ideologici dell'islamismo con il marxismo-leninismo, e quella di Lee Harris che vede nel fondamentalismo islamico un "imperialismo religioso" essenzialmente diverso dalle ideologie secolorariste dei totalitarismi del Novecento e altre la cui disonestà intellettuale è palese. Quando Tony Judt, per esempio sostiene che il termine islamofascismo  "è semplicistico semplicistico perché la jihad e l'Islam non sono la stessa cosa". Sta polemizzando con una tesi che si è fabbricato da solo: quella per cui l'islam sarebbe una forma di fascismo. In realtà, chi ha parlato di islamofascismo si è sempre riferito a una strumentalizzazione politica della religione islamica, e a una sua variante ideologica fortemente influenzata dai totalitarismi occidentali.

Ecco il testo:

In un libro intitolato Icona del male,
sottotitolo «Il muftì di Hitler e la nascita dell'Islam radicale» (Random House), gli storici David Dalin e John Rothmann hanno ricostruito uno dei capitoli più bui della storia musulmana recente, quello di Haj Amin al-Husseini, la massima autorità religiosa e politica della Palestina tra le guerre mondiali. Eletto muftì di Gerusalemme nel 1921 per volontà degli inglesi, Haj Amin si rivelò un despota sanguinario e antisemita. E quando l'Inghilterra aprì la Palestina agli ebrei in fuga dalla Germania nazista, scatenò i moti arabi che culminarono nella rivolta del '36, facendo assassinare indiscriminatamente non solo ebrei, ma anche inglesi e palestinesi dissidenti. Sconfitto, il muftì si rifugiò a Berlino, fornì a Hitler volontari musulmani per le SS e caldeggiò l'Olocausto. In cambio chiese, ma non ottenne, il bombardamento di Gerusalemme e la formazione di un corpo speciale per la «liberazione» della Palestina. Caduto il Terzo Reich, il muftì riuscì misteriosamente a sottrarsi ai processi per crimini di guerra e a riparare in Medio Oriente, dove morì nel '74 «moralmente e politicamente screditato».
Oltre che per la sua minuziosa ricostruzione storica, Icona del male è un libro importante perché ripropone una tesi che riaffiora periodicamente in Occidente a partire dagli anni Sessanta-Settanta, che cioè il nuovo estremismo musulmano affonda le radici nei totalitarismi europei dell'inizio del XX secolo, in particolare nel nazismo e nello stalinismo, entrambi antisemiti, e che quindi l'Europa non è senza responsabilità per la attuale jihad, la guerra santa islamica, e per l'assedio arabo di Israele. Il libro è l'ultimo in ordine di tempo a sostenere questa tesi, lo hanno preceduto numerosi altri tra cui La quarta guerra mondiale (edito in Italia da Lindau) di Norman Podhoretz, il padre dei liberal ultras trasformatisi in neocon dopo il '68. Ma la sua pubblicazione ha riacceso un aspro dibattito: se si possa o meno parlare di islamofascismo, «un termine controverso » nota il New Oxford American Dictionary,
«che paragona alcuni movimenti islamici moderni a quelli fascisti dell'Europa del primo Novecento», o se la jihad e l'antisemitismo non siano sempre stati due connotati fondamentali dell'Islam.
Il termine islamofascismo è stato bandito da George Bush, ma tra quanti sostengono che esso sia un termine «valido», che rispecchia i legami tra due ideologie perverse, vi sono il neocon David Horowitz, il liberal Paul Berman, autore di
Terrore e liberalismo (Einaudi), e Christopher Hitchens, un polemista più difficile da etichettare. I tre ricordano che in Europa l'alleanza tra fascismo e religione fu frequente, tanto che si parlò di «clericofascismo » per la Spagna di Franco, la Croazia degli ustascia, la Romania della Guardia di ferro, detta anche «Legione dell'arcangelo Michele», e altri. Hitchens, che al momento dell'attentato delle Torri gemelle denunciò «il fascismo col volto dell'Islam », riscontra nei due movimenti «lo stesso culto della morte e lo stesso disprezzo della mente, la stessa paranoia antisemita e la stessa adorazione del leader ». Berman commenta che entrambi poggiano sul concetto di una società esclusiva e pura, e sulla sete di vendetta per le umiliazioni loro inflitte dalla storia. Horowitz ha persino condotto una campagna contro l'islamofascismo nelle università per mobilitarle come contro Hitler nel '41.
Questi giudizi erano già stati espressi da vari storici e politologi. Nel '63, Manfred Halperin, un professore di Princeton, ammonì che «il movimento neoislamico emergente è parafascista». Nel '79, il francese Maxime Rodinson definì la rivoluzione di quell'anno in Iran «fascismo arcaico». Nel '90, l'inglese Molise Rutheven usò per primo il termine islamofascismo. E nel '96 Walter Laqueur, nel libro
Fascismi. Passato, presente e futuro (appena uscito in Italia da Marco Tropea), evidenziò «le simpatie fasciste dei Fratelli musulmani e delle forze laiche in Egitto, Iraq e Siria negli anni Venti e Trenta». Secondo alcuni pensatori di oggi, tuttavia, dal liberal Peter Beinart allo storico inglese Tony Judt, al docente di storia delle religioni John Kelsay, all'arabista Daniel Pipes, islamofascismo è un termine improprio. Beinart ribatte che «il fascismo adora lo Stato, che per i musulmani è invece una imposizione pagana che minaccia la loro unità». Judt protesta che «il termine è semplicistico perché la jihad e l'Islam non sono la stessa cosa». Kelsay obietta che «il mainstream musulmano è moderato ma al momento perdente».
A sostenere che, più che al fascismo, l'estremismo islamico vada collegato allo stalinismo è Daniel Pipes, un neocon. A suo parere, esso «ha vincoli storici e filosofici con il marxismo-leninismo». Pipes cita l'interpretazione data da Sayyd Qutb, l'ideologo dei Fratelli musulmani, della dottrina marxista delle fasi della storia: «Prima crollerà il capitalismo, poi il comunismo, infine si creerà un'era eterna dell'Islam». L'arabista fa sua anche l'affermazione dell'iraniana Azar Nafisi che «oggi l'Islam attinge tanto alla religione quanto a Lenin e Stalin». Stando a Pipes, il radicalismo islamico ha una quinta colonna in Occidente: «Gli irriducibili marxisti leninisti che hanno stipulato con esso un patto simile a quello tra Stalin e Hitler nel '39». Ma come quella di Berman, Hitchens e Horowitz, la sua analisi è contestata non solo da Beinart, Judt e Kelsay, bensì anche dagli storici — una minoranza — che riscontrano nell'espansione dell'Islam nei secoli un «imperialismo religioso ». È il caso di Lee Harris, che gli attribuisce l'obiettivo permanente di rendere il mondo «suddito di Allah».
Liceità dei termini islamofascismo e islamomarxismo a parte, su un punto emerge un certo consenso: che gli estremisti musulmani si siano ispirati alla strategia delle dittature europee, se non anche alla loro ideologia. L'inglese Lawrence Freedman lo evidenzia nel libro La scelta dei nemici (PublicAffairs) dove illustra due «onde» nell'attuale guerra dei radicali islamici contro l'Occidente. La prima, spiega, fu quella degli anni Cinquanta e Sessanta, quando i musulmani nazionalisti combatterono il colonialismo e predicarono il secolarismo, una doppia rivoluzione, esterna e interna. La seconda iniziò negli anni Ottanta, in seguito al fallimento della prima, impersonata da Nasser in Egitto e dallo scià in Iran. La loro sconfitta, proclama Freedman, diventò la prova che per sconfiggere il nemico l'Islam doveva recuperare il proprio fondamentalismo religioso. Ma i metodi di lotta non cambiarono nella seconda onda, tuttora in corso. Come in Europa, si tratterebbe comunque di una fase della storia, non del permanente Scontro di civiltà di Samuel Huntington, su cui si polemizza ormai quasi da vent'anni.

Il muftì Haj Amin passa in rassegna un reparto musulmano di SS nel 1944. Sotto Daniel Pipes
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