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Storia di una vita Aharon Appelfeld
Guanda Euro 14 Quello che la mente non può registrare lo registra il corpo, “I palmi delle mani, le piante dei piedi, la schiena e le ginocchia, che ricordano più della memoria”. E’ il tempo della guerra, della deportazione della morte dei genitori e poi della fuga e del vagabondaggio. Per tre lunghi anni il piccolo Aharon sopravvive da solo, nascondendosi nei boschi, come un animale braccato, vittima di un destino smisuratamente incomprensibile: “Fu allora che l’oblio costruì i suoi profondi sotterranei”. “Storia di una vita” di Aharon Appelfeld è un’autobiografia dove le lacune c ontano molto di più dell’abbondanza espressiva. Tra la Bucovina dell’infanzia e l’Israele della maturità si stende, per Appelfeld, uno spazio quasi del tutto immemore, che sembra talvolta inghiottire anche la scrittura. Il libro è per molti versi straordinario e si basa su una scommessa, quella di riportare alla luce il fluire delle sensazioni, la costellazione di paure, rumori, dolori, minacce e fiochi barlumi di speranza di cui si è nutrito un bambino in fuga. Pur senza essere saccente o didascalico, il racconto di Appelfeld è impietoso. Il giudizio morale non è mai affidato a tirate politiche sull’antisemitismo europeo, ma risulta piuttosto per contrasto, dall’accostamento di ritratti umani. Di loro, dei persecutori nazisti, lo scrittore non parla direttamente, se non attraverso il terrore, che vede nascere attorno a sé. Con semplici gesti, atmosfere, addirittura con i colori del paesaggio ci viene restituita la sensazione di un mondo che va in frantumi. Un’ultima estate nel villaggio dei nonni, prima dell’invasione tedesca, alza un turbine d’immagini. La sinagoga con i vecchi ebrei che si affaticano sulle pagine dei libri di preghiera “gialle con grandi lettere nere”, e poi le domestiche cristiane, sorridenti e complici, eppure già in procinto di tradire. Il padre di Aharon è un laico impenitente, e la madre, sebbene a modo suo devota, è orgogliosa della propria cultura tedesca. Già perché la lingua in cui affiorano le mémoires involontaires di Appelfeld è un tedesco ormai lontano, inattuale e quasi mistico. La prosa della ragione si trasforma così in una sequela di suoni sempre più inarticolati. “Non l’ho vista morire – scrive Aharon – ma il suo solo e unico grido l’ho sentito”. Una nota soffocata come estremo ricordo della madre, poi le voci della sua vita diventano quelle della foresta e il frasario rudimentale dei contadini ucraini, tra cui riesce a nascondersi, chissà come. E, chissà come, il bambino viziato e timido passa incolume attraverso episodi tra il tragico e il picaresco, come l’incontro incancellabile con una strega-puttana, metà diavolo e metà santa. Quando i sovietici riconquistarono l’Ucraina, Aharon – che ha ora tredici anni – non riesce quasi più a parlare, balbetta mozziconi di frasi, raggelato com’è per lo sconfinato inverno interiore. Lo aspettano il campo profughi in Italia e l’immigrazione in una Palestina dapprima estranea e sconfortante. Il mestiere della scrittura gli si rivela come ritorno verso se stesso, in una lingua nuova (un ebraico conquistato sillaba per sillaba) e in un paese chiassoso: “I primi vocaboli che uscirono dalla mia penna erano un’invocazione disperata a ritrovare il silenzio che mi aveva circondato durante la guerra e a restituirmelo”. Compito difficile quello di scrivere un libro sul silenzio. Ci vogliono parole scelte una a una, e levigate come ciottoli. Giulio Busi Il Sole 24 ore |
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