Da PANORAMA del 4 luglio 2008, un articolo di Fiamma Nirenstein:
C’è un rito antiamericano particolarmente apprezzato per la sua apparente oggettività: la ricerca annuale della Pew sull’atteggiamento globale verso gli Stati Uniti, da cui quest’anno si scopre che solo il 12 per cento dei turchi, il 22 per cento degli egiziani, il 19 per cento dei pachistani, e così via, amano l’America. Insomma, l’antiamericanismo è forte.
Dice il grande mediorientalista Fouad Adjami che la lettura del rapporto Pew corrisponde per i liberal americani ai dieci giorni di autoflagellazione degli sciiti, al suo piacere-dolore. È inutile dire che niente di male è stato fatto dagli Usa alla Turchia, considerata un alleato prezioso, e che l’Egitto riceve dagli Stati Uniti solo ingenti aiuti.
Ma la benzina più efficace dell’antiamericanismo da molti anni è la guerra in Iraq. Il punto è, come afferma il senatore Joe Lieberman, che la guerra in Iraq è ormai una storia di disastri e spargimenti di sangue, errori e prepotenze dell’amministrazione Bush, della sua ambizione smodata di promuovere la democrazia come antidoto al terrore. È senso comune che George W. Bush si sia inventato le armi di distruzione di massa, che abbia spacciato il suo desiderio di vendetta per lotta per la democrazia. In realtà Bush ha agito conformemente alle indicazione dei suoi servizi e l’idea che le armi di distruzione di massa siano state spostate verso la Siria è un’ipotesi mai scartata.
Dire oggi che gli Stati Uniti sbagliarono creando un disastro serve a proibire ogni altro intervento, per esempio contro la futura arma atomica iraniana. Allo stato attuale, tuttavia, il numero di buone notizie che arrivano dall’Iraq (anche se interrotte da eventi come l’attacco terroristico del 24 giugno) supera di gran lunga quello delle cattive, tanto che anche Barack Obama, dopo aver promesso di ritirarsi subito dall’Iraq in caso di vittoria alle elezioni Usa, sembra ripensarci.
Ryan Crocker, l’ambasciatore americano in Iraq, ha affermato: «Come lasceremo e cosa lasceremo è più importante di come siamo venuti». E lavora sodo a un nuovo accordo con il governo di Nuri al-Maliki. Di ritiro si parla meno che di impegni, mentre gli investimenti crescono.
Sono tornati i profughi cacciati o fuggiti da Saddam Hussein. Le scuole, gli ospedali, i giornali, i commerci si sono moltiplicati. Nel mese scorso il numero dei soldati americani caduti in battaglia è stato il più basso dal 2003.
A cambiare le sorti della guerra sono stati, in gran parte, il fatto che i sunniti stessi hanno combattuto contro Al Qaeda (sunnita) e gli errori del movimento di Osama Bin Laden responsabile di stragi indiscriminate. Al-Maliki ha detto a Teheran che lo sciismo rivoluzionario a lui, sciita, non piace. Sadr City è stata presa, Al Qaeda viene combattuta con energia.
I sunniti dopo il passaggio di una serie di provvedimenti trattano l’entrata nel governo. Il numero due di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri, ha definito l’Iraq «la più importante arena contro le forze crociate e sioniste insieme». Ma non ha tenuto conto della strategia del generale David Petraeus: ridare fiducia alle tribù e alle hamule (clan) sunnite avrebbe provocato la crisi dei seguaci di Bin Laden.
Ce n’è voluto, ma dal primo momento la costante è stata quel dito intinto nell’inchiostro e sollevato come una bandiera a ogni votazione. Gli iracheni, durante il loro difficilissimo cammino, hanno seguitato a proclamare la scelta per la democrazia. Ogni essere umano vuole la libertà, come dice Bush, e l’opinione pubblica liberal ha sacrificato all’antiamericanismo questa verità e la pazienza che occorre per vederla fiorire.
Per inviare una e-mail alla redazione di Panorama cliccare sul link sottostante