Due nella mia memoria i lampi del ’39, a brevissima distanza uno dall’altro, agosto e settembre.
Ad agosto ero in uno sperduto paesino delle Marche che non essendo meta turistica marina o montana era ancora concessa agli ebrei.
Non so come ci eravamo capitati. Forse perché ci era stato indicato da qualche parente o amico che a sua volta aveva un parente laggiù, e ai miei genitori era parsa una buona idea per andare a “disintossicarsi” qualche giorno lontani da tutto.
Ricordo che dalla stazione ferroviaria una corriera portava me e i miei genitori fino ai piedi di un paesino che si doveva poi raggiungere a dorso di mulo. Però poi eravamo ricompensati dalla bellezza dei luoghi, dal panorama che ci si offriva.
L’alloggio era ovviamente molto semplice ma confortevole. Il padrone di casa che ci ospitava era ruvidamente affabile e di sicuro antifascista. Chi ci aveva indirizzato a lui lo sapeva bene.
Ricordo le lunghe gite a piedi, ricordo anche la mancanza di giornali, di cui sentivo già la mancanza (come sentirò in seguito per tutta la vita, nei casi di altre assenze, la mancanza della “preghiera laica del mattino”), ma in compenso era lontana la città con le sue leggi razziali e questo non si può e questo è vietato e così via. Qui di razza non si sentiva proprio parlare. I ragazzi del posto credo che nemmeno sapessero cosa sono gli ebrei. Con loro tornavo a giocare fuori dal “ghetto”.
I giornali non c’erano, ma la radio sì.
Un giorno ecco all’improvviso un altro lampo nero. La radio parlava diuna specie di alleanza – un “patto di non aggressione” – tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica comunista con alcuni punti dell’accordo palesi ed altri, come si dice oggi, “segretati”. Sapremo solo molto più tardi che nel patto Molotov – Ribbentrop (con la benedizione di Hitler e di Stalin) era compresa la rigorosa spartizione della Polonia, di cui saremo ben presto testimoni.
Questa abnorme alleanza aveva preso tutti di sorpresa.
Nei giorni seguenti la radio e i giornali avevano avuto il loro bel da fare per spiegare come mai da nemici acerrimi - il nazismo e il fascismo contro il comunismo - erano passati agli abbracci tra amiconi. Appena poco tempo prima da un romanzo era stato tratto un film che in Italia restato diviso in due parti: “Noi Vivi” e “Addio Kira”, con la splendida Alida Valli e il bel tenebroso Fosco Giachetti. Il film era ambientato nella Russia comunista ed era, negli intenti dei produttori, una dura condanna del regime dittatoriale dell’URSS.
Rivisto molti e molti anni dopo ci pareva che lungi dall’essere così mangia-comunisti come era nelle intenzioni, il film era anche troppo tenue e presentava un regime troppo edulcorato rispetto alla realtà del periodo staliniano.
All’epoca ero abbastanza grande – dodici anni – per rifiutarmi di andare a vedere un film di calunniosa propaganda. Ed era un grande sacrificio per me, precoce cinofilo, rinunciare al cinema e al fascino di Alida Valli.
Ma in quell’agosto 1939 l’alleanza tra i due dittatori ci sembrava la tomba delle nostre speranze. Non saremmo mai usciti dalla trappola.
Per alcuni miei parenti il colpo era stato anche maggiore. Uno era stato tra i fondatori del partito comunista italiano nel famoso contro-congresso di Livorno del 1921. Era un adoratore di Umberto Terracini quella adorazione me l’aveva contagiata. Conoscerò Terracini dopo la guerra, quando mi impartì lezioni politiche che non dimenticherò mai e per cui – si era nel 1953 – me ne uscii in punta di piedi dal partito.
Quel mio zio finirà per restituire la tessera del partito dopo la posizione antisraeliana assunta su ordine di Mosca, una posizione che ha contribuito molto a coltivare la pianta dell’antisemitismo, a partire dal 1955.
Ma intanto eravamo tutti più che mai nelle mani del boia.
Il 1° settembre dello stesso 1939 la Germania invadeva la Polonia e in pochi giorni sopraffaceva le fragili difese sparse nella troppo grande pianura polacca. Da Est i sovietici si affrettavano a occupare la loro metà del disgraziato paese, la metà che costituiva la sua parte del bottino.
Questa volta Francia e Gran Bretagna non si erano più potute sottrarre alle garanzie date a Varsavia. Dovevano onorare la loro parola ed entravano in guerra contro la Germania. Entravano in guerra, ma senza avere alcuna fantasia di farla. Arroccata dietro la Linea Maginot, diedero l’avvio a quella che per mesi fu chiamata “la strana guerra”, la “drole de guerre”.
Tutti fermi fino alla primavera del 1940. Intanto i tedeschi incominciavano a catturare gli ebrei – erano tre milioni – e a fare le prove della strage totale.
Noi eravamo annichiliti, ma ancora speravamo. Il peggio doveva venire.
A febbraio del 1940 tutto sembrava però relativamente tranquillo in Italia.
Così il 10 febbraio, come ho accennato prima, ho potuto celebrare al Tempio di Genova il mio ingresso di tredicenne nel mondo degli uomini. Per il bar mizvà mi aveva preparato tutto un anno lo zio del rabbino Riccardo Pcifici, Samuele Pacifici, che per un suo difetto di pronuncia noi ragazzi chiamavamo “Tamelle”. Ma gli volevamo bene. E lui a noi, quasi quanto ce ne voleva suo zio.
Così il 10 febbraio avevo non solo letto (era difficile senza la punteggiatura), ma cantato un brano – Parashà - della Bibbia. Poi una doppia festa a casa, prima con i “vecchi” (erano venuti parenti da quattro città), poi con i ragazzi e le ragazze.
E’ stato il mio primo ballo e ricordo ancora “Maria Laò”, un tango argentino e “Caminito”, altro tango.
Come ho anticipato, subito dopo i fulmini hanno incominciato a cadere. Pochi giorni dopo via le licenze di lavoro a mio padre e a mio zio, l’infarto di papà.
Il 10 giugno, mentre io ero al cinema a vedere “Paradiso Perduto” con un compagno, rumori in sala e tutti fuori. La radio trasmetteva il discorso di Mussolini: “La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna… Popolo italiano, corri alle armi!...Vincere, e vinceremo!!”.
Pochi giorni dopo la polizia veniva a casa nostra e arrestava mio padre, mia madre e me. Ci portava in Questura e ci rinchiudeva in una delle sue celle.
Ci siamo stati solo un paio di giorni, poi via, confinati (per la verità solo mio padre, ma naturalmente ci siamo andati anche mamma ed io) in un paesino, ancora delle Marche, che si chiamava allora Belforte sul Chienti e oggi è diventato Belforte del Chienti, che non mi è parso un grande miglioramento linguistico.
Più di sessanta anni dopo mi avrebbero invitato con grande affetto e con festose cerimonie. Mi hanno fatto piangere, e non avevo più l’età.
Il 1938 continuava, e continuava il nostro processo di adattamento verso il basso.
Continuava nella guerra, le cui vicende per l’Italia non sono mai state buone (con nostra grandissima gioia, devo dire), dalla Grecia all’Africa. Addio a “Faccetta nera”, addio un po’ alla volta all’”Impero” (malgrado Mussolini annunciasse che “Ritorneremo!!”), addio alla Libia…
E nell’ottobre del 1942 cominciava, a Genova, a Milano, a Torino, la stagione dei grandi bombardamenti, il primo dei quali proprio sulla mia testa a Genova, lontano da casa, in una notte punteggiata dalle esplosioni, trascorsa sotto uno dei diversi tunnel sicuri al centro della città. All’uscita all’alba le fiamme che coprivano la città per quanto l’occhio poteva abbracciare, sembravano davvero i fuochi di qualche girone infernale.
Era l’inferno, ma anche la porta socchiusa della speranza.
Ci sarebbero poi state le prime sconfitte tedesche, da Stalingrado al Nordafrica, un annuncio della catastrofe, che quando incominciò a delinearsi come ineluttabile vide anche gli intellettuali del nostro paese defilarsi un po’ alla volta alla ricerca di una verginità da ricostruire in tutta fretta.
Del 1943 non voglio parlare. Dopo l’8 settembre io e i miei dobbiamo la vita, nell’ordine: a un maresciallo dei carabinieri che era stato solito ascoltare con noi Radio Londra; alla ragazza di un mio cugino che ci nascose a casa sua e ci aiutò a preparare la fuga in Svizzera; ad un ladro professionista e capo di una banda, che ci nascose per una decina di giorni a Milano nella sua villetta, organizzando praticamente la fuga che da Milano ci portò a Como e da qui, attraverso il Monte Bisbino e accompagnati da uno “spallone” in Svizzera, non prima però di avere affrontato una drammatica avventura, proprio a pochi metri dalla rete confinaria, che procurò un spavento fortissimo a me e ad un crollo psicofisico a mia madre da cui non si riprese mai interamente.
Il 15 ottobre 1943 entrammo in Svizzera e vi fummo accolti, non senza altri momenti drammatici che non aiutarono certo i miei genitori a rimettersi.
Potrei tuttavia dire che qui finiva per noi il 1938 e le nostre vicende svizzere attengono alla storia di momenti difficili, ma non esclusivi. Voglio dire che nessuno in Svizzera minacciava le nostre vite o ci teneva in conto di esseri inferiori. Era solo esilio, fortunato esilio.
Il 1938 finiva davvero soltanto nella primavera del 1945. Tornavamo a casa. Avevo 18 anni e tanta voglia di vivere.