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Luciano Tas
Le storie raccontate
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Il mio 1938, ottava puntata 02/07/2008

Dello scoppio della II guerra mondiale ho un ricordo che mi è rimasto impresso fino ad oggi, e non è un bel ricordo. Ero in treno con una zia che mi aveva ospitato nella sua villetta di Voghera e mi stava riaccompagnando a Genova.

Di quella villetta ricordo il bel giardino, l’orticello e una bambina, più o meno sui cinque anni come me e con la quale giocavo tutti i giorni: l’avrei rivista dopo la guerra, avevamo diciotto anni e lei aveva la testa  completamente rasata. Ero tornato da pochi giorni in Italia e non conoscevo il significato di quella rasatura a zero: quando l’ho saputo mi sono trovato in un grande imbarazzo, che non sarebbe stato l’ultimo della mia vita.

Presso a poco in quel periodo avevo fatto la conoscenza di un signore inglese, ospite di miei zii di Voghera, con il quale facevo grandi riflessioni sulla vita e la morte e gli dicevo che sarebbe stato gusto morire tutti a trent’anni, perché dopo era la decadenza. Lui si divertiva molto a sentire questi discorsi. Non l‘ho ma più rivisto, però durante la guerra l’ho sentito spesso: era il “colonnello Stevens” che parlava da Radio Londra.

All’epoca del treno Voghera-Genova avevo però dodici anni  già stavo rivedendo le mie opinioni su quanto sarebbe dovuta essere lunga la vita: avevo già ampliato i confini.

Era settembre 1939, la guerra era cominciata a qualche settimana. Nel mio scompartimento c’erano tre signori che discutevano ammirati della guerra-lampo, blitzkrieg, della Germania di Hitler. Io non mi sono mai astenuto, spesso con mio danno, dall’intervenire in discorsi politici. Solo che in quella occasione me ne sono venuto fuori esprimendo il mio pensiero sulla Germania, sul nazismo e su Hitler. Al che uno dei tre si alza e mi rifila uno schiaffone. Non avevo ovviamente la forza sufficiente per renderglielo. Mia zia, terrorizzata dalle possibili conseguenze “razziali”, accennava una flebile protesta per lo schiaffo, ma subito dopo mi acchiappava e si rifugiava con me in un altro scompartimento.

Devo dire che quello schiaffo mi brucia tuttora?
Poi, come sempre, la vita ricominciava. La scuola, i voti, le interrogazioni, i compiti in classe. I temi in quel periodo erano sostanzialmente idioti. Me ne rendevo benissimo conto e credo che se ne rendessero conto anche gli insegnanti, che però dovevano giustificare il loro operato al Provveditorato, dove tra l’altro andavano a finire i testi della classe. Naturalmente per un controllo politico.

Ma a volte non ce la facevo proprio Un esempio: cosa si poteva scrivere sul tema (autentico): “Italia, Italia, sacra alla nuova aurora con l’aratro e la prora”? Qui avevo sfogato tutta la mia rabbia, e con quello che credevo fosse un capolavoro di diplomazia del dire e non dire, la nostra professoressa il giorno dopo  scongiurava di rifarlo completamente, lei il voto me l’aveva già messo ed era un ottimo voto, ma per carità, dovevo sostituirlo, lo facessi per lei.

E così ho poi acceduto alla sua richiesta, ma confusamente convinto di  avere fatto la cosa giusta. Potevo dunque rifarlo quel tema, scrivere le baggianate che mi erano richieste e sentirmi forte e al tempo stesso generoso con la nostra mite insegnante.

Ho detto che il 1938 in realtà si è prolungato fino al 1945. Ma il 1940, con l’ingresso in guerra dell’Italia, il confino a mio padre, la mia vita a casa dei miei zii “genovesi”, a scuola e le sue avventure normali per una scuola, non fosse stato per il muro di vetro che ci separava dagli altri italiani (al quale tuttavia ci eravamo assuefatti), senza per questo difenderci. Non era un muro di contenimento, erano le pareti della trappola.

Posso solo ricordare come a quattordici anni, nel 1941, ero diventato comunista.

A Genova la scuola ebraica non era parificata, come credo fossero quelle di Roma e Milano, e perciò ogni anno dovevamo dare l’esame da privatisti presso una scuola pubblica, dove eravamo peraltro isolati dagli altri privatisti per non infettargli il virus ebraico.

Entrati dunque per ultimi in classe, ci aspettava il Preside, professor Castorina, a braccio destro alzato nel saluto fascista (era un omaggio? Non l’ho mai saputo). Fatto sta che noi, in fila indiana, ci stavamo avviando ai banchi, e ognuno rispondeva al saluto nello stesso modo.

Io invece, certo non per eroismo dal quale ho sempre rifuggito, ma per una inclinazione al bastian contrario, mi è girato di non alzare il braccio.

Così il Preside mi ha richiamato “E tu perché non saluti?”, al che mi sono dilungato a spiegargli perché non facevo il saluto fascista, in quanto perseguitato dal fascismo.

La cosa pareva finita lì (credo che il Preside si fosse poi limitato a fare abbassare il voto d’italiano), ma ecco una telefonata la sera a casa dei miei zii. Era un professore di quell’istituto, che mi comunicava come in sala professori l’episodio fosse circolato. In breve, questo professore, Brenda, mi rivelava la materia del giorno dopo, e poi così le altre sere, fino a promozione trionfale.

Sono andato a casa sua a ringraziarlo, e in quella occasione ha incominciato a mettermi a parte dei misteri del comunismo. In breve, sono entrato solennemente nel partito, anche se in pratica non è che facessi qualcosa di molto utile (se non forse, qualche tempo dopo, guadagnare le suore di Nevers, dove prendevo lezioni di tedesco e inglese, alla causa sovietica, mettendo le bandierine su una grande carta geografica al muro).

Vorrei che tutto fosse finito qui, ma il 1938 doveva durare ancora diversi anni. Il peggio doveva venire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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