Iran: le sanzioni non funzionano, ma l'intervento militare non è ancora inevitabile lo sostiene Henry Kissinger
Testata: La Stampa Data: 02 luglio 2008 Pagina: 9 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «“Agnelli, patriota italiano che credeve nell'Europa"»
La STAMPA del 2 luglio 2008 pubblica un'intervista di Maurizio Molinari a Henry Kissinger nella quale vengono anche toccati i temi della sfida del fondamentalismo islamico all'Occidentee della minaccia iraniana.
Ecco il testo:
Riuscire a incontrare a tu per tu Henry Kissinger significa inseguirlo sui cieli dell’Atlantico, subire i tempi mutevoli di un’agenda disseminata di capi di Stato e leader d’industria, avere sempre in testa come unico fuso orario quello di New York e affrontare stoicamente interminabili attese per poi trovarsi all’improvviso di fronte a una mente brillante quanto provocatoria che non cessa mai di mettere alla prova l’interlocutore. L’incontro a Roma, in un hotel del centro storico, avviene a notte fonda ma l’85enne ex Segretario di Stato reduce da una mattinata a Vienna, un pomeriggio di incontri capitolini, una deposizione di fronte alla commissione Servizi Segreti e una cena ristretta a Villa Taverna non mostra stanchezza, muove in continuazione i piccoli occhi chiari e pressa i collaboratori sul «lavoro che ho da fare nella prossima mezz’ora», mostrandosi quasi divertito a trattare le tenebre come se fosse pieno giorno. Poi solleva l’indice della mano destra e tiene a precisare che se parla con la Stampa è «perché è il giornale che fu Gianni Agnelli e oggi è di John Elkann». Dunque partiamo proprio da Agnelli. Il Convegno dell’Aspen e del Consiglio Italia-Usa verte attorno a interdipendenza, multilateralismo e legame transatlantico. Qual è la lezione che Gianni Agnelli ci ha lasciato su questi temi? «Gianni Agnelli era un patriota italiano che credeva nell’Unione Europea ed era al tempo stesso un alfiere della partnership transatlantica. Spesso nei dibattiti di politica interna si tende a contrapporre l’interesse nazionale e le motivazioni per essere uniti. Affiora anche l’opinione che l’Europa deve organizzarsi da sola, in maniera separata dagli Stati Uniti. Gianni Agnelli invece fu un patriota che lavorò profondamente per l’integrazione europea e per le relazioni transatlantiche. Individuò il sentiero che fa coincidere interesse nazionale, unione dell’Europa e legame con l’America». Papa Ratzinger è impegnato a rafforzare le radici cristiane dell’Europa, denuncia i pericoli portati dall’estremismo e si batte per la libertà religiosa in Cina come a Cuba e in Medio Oriente. Può essere un partner strategico dell’America come lo fu Giovanni Paolo II negli Anni Ottanta? «Il compito del Papa non è di essere un partner strategico degli Stati Uniti, compito della Chiesa è di avere una visione più ampia, di lungo termine, filosofica. Giovanni Paolo II visse un’epoca diversa, quando il comunismo costituiva una sfida per l’identità cattolica della Polonia. Nel secolo in cui viviamo la sfida all’Occidente non viene dal mondo islamico nel suo complesso ma dall’attivismo di un gruppo ristretto di leader estremisti. È una sfida strategica alla quale il Papa è chiamato a dare una risposta di tipo filosofico». L’Italia ha uno dei pil peggiori dell’Europa e ha da poco cambiato governo. Ritiene sia in grado di risollevarsi? «Spesso nei secoli passati ci si è chiesto se l’Italia fosse in grado di farcela, di superare le difficoltà del momento, e poi ciò è sempre avvento. Non mi chiedo neanche se l’Italia sarà in grado di risollevarsi. Un popolo come quello italiano, abile nell’arte di arrangiarsi di fronte alle più impervie difficoltà, smentirà ancora una volta chi prevede la sua inesorabile caduta. Silvio Berlusconi è certo un leader determinato e capace ma la speranza è riposta nella gente comune, nel buon senso e nelle grandi capacità degli italiani». Barack Obama è molto avanti nei sondaggi, l’America sembra essersene innamorata in fretta mentre John McCain, che lei sostiene, appare obbligato a una difficile rincorsa. La battaglia per la Casa Bianca è già finita o è ancora aperta? «Non mi sento un esperto di politica interna americana ma sarei cauto sul sensibile vantaggio che viene assegnato a Obama. Nel 1988, in questo stesso periodo, il candidato democratico Michael Dukakis aveva un simile vantaggio rispetto al repubblicano George H. W. Bush ma poi fu quest’ultimo a prevalere...». Obama come Dukakis? «Obama certamente ha molte cose che Dukakis non aveva: l’età, il senso di un cambiamento possibile che riesce a trasmettere. Ma McCain è un mio amico, lo conosco bene, non è ancora battuto. I suoi consulenti hanno dei sondaggi secondo cui la differenza fra i due è assai più ristretta di quanto si pensa. Il momento in cui si capisce l’orientamento degli elettori non è durante l’estate ma alla fine, passato il Labor Day. Obama non ha ancora vinto la presidenza». Sull’Iran che cosa pensa: le sanzioni stanno funzionando oppure l’opzione militare è diventata oramai inevitabile? «Nessuna delle due cose. Le sanzioni non stanno affatto funzionando, serve maggiore impegno e unione internazionale per renderle davvero efficaci al fine di spingere l’Iran a bloccare il programma nucleare. Ma l’opzione militare non è ancora divenuta inevitabile. L’interrogativo attorno a cui ruota intorno la crisi iraniana è quanto tempo abbiamo prima che raggiungano l’arma nucleare. L’Occidente non accetterà mai un Iran nucleare perché ciò significherebbe garantirgli la supremazia regionale, farne la potenza di riferimento degli sciiti in tutto il Medio Oriente con conseguenze di forte destabilizzazione. Per impedirlo la comunità internazionale deve impegnarsi di più, senza rifiutare alcun percorso, anche l’America dovrebbe partecipare ai contatti con l’Iran, affiancando l’Europa, nell’offrire incentivi e garanzie per convincere Teheran a bloccare il programma». Se lei fosse il consigliere per la sicurezza di Ahmadinejad che cosa gli direbbe? «Chiuda il registratore e glielo dico». Esaudita la richiesta, Kissinger fa capire che avrebbe qualcosa di concreto da suggerire al presidente iraniano per uscire dall’impasse. Ma non lo vuole rendere pubblico, forse perché non esclude che qualcuno a Teheran possa davvero farsi vivo con il principe della Realpolitik.
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