Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Occidente "arrogante" verso l'islam ? non convincono le critiche di Hanif Kureishi
Testata: Corriere della Sera Data: 01 luglio 2008 Pagina: 41 Autore: Ranieri Polese Titolo: «È l'Occidente arrogante con l'islam»
Non convincono le critiche rivolte dallo scrittore Hanif Kureishi all'Occidente, "arrogante" per il suo senso di "superiorità morale" verso il mondo islamico.
Le accuse di Kureishi alle soscietà occidentali e alle ideologie secolari sono giuste, ma riguardano il passato o ideologie totalitarie ostili alle democrazie liberali.
Non si possono ragionevolmente applicare, invece, al momento, alle società sottoposte all'attacco del fondamentalismo islamico jihadista e terrorista. Anche queste ultime, naturalmente, sono perfettibili. Ma sono anche, già ora, incomparibilmente più libere delle società islamiche esistenti e dei regimi propugnati dal fondamentalismo islamico.
Ecco il testo dell'articolo su Kureishi pubblicato dal CORRIERE della SERA del 1 luglio 2008:
LONDRA — All'angolo di Talbot Road, la strada del Nord-Ovest di Londra alle spalle di Notting Hill, c'è una lavanderia a gettone con l'insegna My Beautiful Laundrette. Un omaggio a Hanif Kureishi — uno dei clienti dell'agenzia letteraria Rogers, Coleridge & White che ha la sede a pochi metri da lì e che rappresenta scrittori come Ian McEwan, Patrick McGrath, Timothy Garton Ash — che quasi trent'anni fa con la sceneggiatura del film di Stephen Frears, ( My Beautiful Laundrette, appunto) si guadagnò una nomination all'Oscar e divenne famoso. Raccontava il film la storia di una coppia gay, il pachistano Omar e l'inglese Johnny, skinhead e di sentimenti razzisti, che mettono su una lavanderia. Ora, Omar, ricompare nel nuovo romanzo di Kureishi Ho qualcosa da dirti, tradotto da Ivan Cotroneo per Bompiani e in uscita in questi giorni. Omar ha passato i 40, ha fatto fortuna con le lavanderie poi le ha vendute per entrare nel mondo dei media producendo tv per le minoranze. Dal '97, l'anno della vittoria di Blair, è diventato Lord. Come gay musulmano crede che i fratelli e le sorelle musulmani debbano «lasciare l'età delle tenebre» e aprirsi al mondo moderno. Lui, Omar, del resto è favorevole alla guerra in Iraq, pensa addirittura che «abbiamo fatto un favore agli iracheni», cosa che gli attira l'odio dei musulmani e della sinistra radicale. Non sono queste le sole pagine del libro in cui la questione politica — Occidente e Islam, liberalismo e fondamentalismo, la vita delle minoranze etniche nell'Inghilterra della Thatcher prima e di Blair poi — viene affrontata. Anzi, è il sottotesto del romanzo, il basso continuo su cui si inscrive la vita di Jamal Khan, figlio di un matrimonio misto (padre pachistano, madre inglese), cresciuto fuori dalla religione degli antenati e affascinato dalla cultura occidentale che cerca di conquistarsi leggendo tutto quello che gli capita. Fino a quando l'amore infelice per una giovane indiana e la morte non accidentale del padre di lei lo precipitano in una crisi da cui solo uno psicoanalista lo aiuterà a uscire. Ora, a quasi 50 anni, fa lo psicoanalista, ha scritto libri di successo, si è appena separato dalla moglie, e ha i problemi tipici dell'età «in cui ci sono più funerali che matrimoni». Se il privato è incasinato (ci mette molto del suo la sorella Miriam, 5 figli e nessun marito, tatuaggi e piercing, perennemente in guerra contro il sistema), il pubblico non lo è meno. Nelle ultime pagine del libro ci troviamo a Londra 2005, con le bombe nella metropolitana e sui bus. L'amica indiana, laica e senza nessun interesse per la religione, si mette a studiare il Corano. L'amico inglese, ex comunista, è sconvolto: «Siamo cresciuti sui movimenti radicali del Terzo Mondo, e adesso i ribelli, gli oppressi, ci stanno uccidendo». Islamisti o liberali. Pochi giorni fa, in un'intervista a questo giornale, Ian McEwan ha dichiarato di disprezzare l'islamismo perché vuole una società che discrimina le donne e condanna gli omosessuali. «Se per islamismo si intende l'ideologia politica estremista di Al Qaeda o dei talebani, anche a me non piace per niente — commenta Kureishi —. Sarebbe come chiedere a qualcuno se gli piace il fascismo: tutti dicono di no. La questione, però, non è così semplice. E quello che mi colpisce quando si affrontano questi discorsi è l'arroganza con cui l'Occidente continua a sostenere la sua superiorità morale. Allora, guardiamo un po' questi argomenti. Primo: la questione degli omosessuali. Vorrei ricordare che, non tantissimi anni fa, quando io ero bambino, in Inghilterra gli omosessuali finivano in carcere. E che le donne hanno conquistato i loro diritti abbastanza recentemente. Secondo: l'accusa ai musulmani di vivere in Stati teocratici dominati dalla religione: da qui intolleranza, fanatismo ecc. Faccio solo osservare che le più efferate macchine di sterminio del XX secolo — nazismo, stalinismo e poi il maoismo — non si basavano su alcun credo religioso, erano movimenti del tutto laici, eppure non sono stati secondi a nessuno nel produrre orrori e morti. Altra dimenticanza di quelli che oggi puntano il dito contro l'islam è la questione del razzismo: io, come anglo-pachistano, l'ho conosciuto. Non c'era grande tolleranza verso le minoranze etniche nell'Inghilterra dei '70 e degli '80». Per Kureishi in queste posizioni anti-islamiste c'è un fondo di razzismo: «Certo, non credo assolutamente che McEwan sia razzista, Martin Amis invece probabilmente lo è. Il razzismo ha sempre trovato un buon terreno nell'Europa cristiana. Senza andare troppo indietro, basta ricordare l'antisemitismo della prima metà del '900: crisi economica, antichi pregiudizi, l'individuazione di un capro espiatorio, e abbiamo visto i risultati. Poi, dopo la guerra, l'antisemitismo è fortunatamente calato. Ma è cresciuta l'ostilità contro gli arabi, i musulmani. Non solo contro gli estremisti fanatici, ma contro gli islamici in genere. Col risultato che quando la gente si abitua a considerarli il nemico principale, si dimentica facilmente di tutte le pulsioni razziste che vivono in Europa in questo momento. Per esempio contro gli zingari». Nel 2009 ricorrono due anniversari, la caduta del Muro di Berlino e la fatwa contro Salman Rushdie: può essere una semplice coincidenza? «No, direi di no» dice lo scrittore. La fatwa contro Rushdie — contro cui ho scritto e che ho condannato: per l'anno prossimo voglio portare in teatro il romanzo The Black Album — fornì all'Occidente il nuovo nemico. Il comunismo era morto, ci voleva un'altra bestia nera. Da qui parte questa ondata anti-islam che non sembra voler finire». Decadenza e psicoanalisi. Nel suo nuovo romanzo c'è una parola che torna molte volte: decadenza. Cosa significa? «Significa il disgusto di se stesso che prova l'Occidente. Per quello che ha prodotto in questi anni, la cultura spazzatura, i giornali di Murdoch e il culto delle celebrities, un materialismo invadente, Berlusconi, Paris Hilton. Ma questi sono anche gli obiettivi delle critiche che i musulmani rivolgono agli occidentali: materialismo, droga, famiglie esplose, pornografia. Ciascuno dei due contendenti rivendica una propria superiorità morale, l'islam con il richiamo alla fede, l'Occidente con i valori della democrazia. C'è ovviamente da entrambi le parti una grande scontentezza di se stessi, che si riflette nelle accuse reciproche». Kureishi racconta di non aver avuto una formazione religiosa: «Non andavo in moschea, nemmeno mio padre ci andava. Del resto, sono un ragazzo cresciuto negli anni '60, la religione era qualcosa di autoritario, volevamo essere il più liberi possibile, sesso, droga, musica. È con la morte di mio padre, nel 1991, che comincio a pormi delle domande, per esempio vado per qualche tempo in moschea. Ma poco tempo dopo decido di cominciare l'analisi...». Proprio come il protagonista del romanzo, che però comincia molto prima. «Avevo letto molto sulla psicoanalisi all'università. Mi interessavo di Gestalt, dei gruppi, delle idee di R. D. Laing. La psicoanalisi ha segnato profondamente il '900, letteratura, cinema, arti visive. Negli anni '50 colonizza gli Stati Uniti, poi torna in Europa, a Parigi incontra lo strutturalismo, qui Lacan tiene i suoi seminari. Ma a un certo punto, tutti dichiarano la morte della psicoanalisi: la depressione — dicono — è solo un problema chimico, comincia la stagione del Prozac. Ma anche questo periodo è finito. Il biologismo è fallito, e con esso il tentativo di azzerare la complessità umana, di semplificare tutto. Torna, ora, la psicoanalisi, anche nei romanzi, per esempio nell'ultimo di Siri Hustvedt, la moglie di Paul Auster. Dopo il crollo delle ideologie, la psicoanalisi rimane l'unico strumento di critica contro l'autoritarismo». Nel suo romanzo tornano alcuni personaggi di suoi lavori precedenti: Omar di My Beautiful Laundrette, Karim di Il Budda delle periferie. Quasi un sequel? «Non proprio, però mi sono divertito a immaginare quei personaggi vent'anni dopo: come hanno vissuto, cosa sono diventati? A volte mi pongo la stessa domanda: cosa ho fatto nella vita? E la risposta è: ho inventato dei personaggi che mi sono vicini come e più delle persone di famiglia, degli amici. Come scrittore faccio un lavoro molto particolare: io creo persone e faccio accadere delle cose».
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