Da PANORAMA del 30 giugno 2008:
Grandi manovre diplomatiche sono in corso in Medio Oriente per pacificare i fronti più caldi intorno a Israele. Siria, Striscia di Gaza, Libano e Cisgiordania rappresentano i tasselli di un’offensiva a base di negoziati segreti, fragili tregue e possibili scambi di prigionieri. Con l’aiuto di paesi musulmani come l’Egitto, la Giordania, il Qatar e l’amica Turchia, Israele porge il ramoscello d’ulivo. Obiettivo: la sfida finale con l’Iran sul suo programma nucleare, già nel mirino dei cacciabombardieri con la stella di Davide.
«È una tattica per isolare Teheran? Sì. Porterà alla pace? No, ma potrebbe far arrivare la quiete su alcuni fronti» prevede per Panorama Barry Rubin, analista del Global research per gli affari internazionali di Herzliya. Una quiete instabile: solo 5 giorni dopo gli accordi a Gaza, il 24 giugno la tregua è stata violata due volte nel giro di 24 ore, in rappresaglia a un attacco mirato israeliano in Cisgiordania. Alla chimera della pace si aggrappa in particolare il premier israeliano, Ehud Olmert. Anche per un motivo poco nobile: distogliere l’attenzione dallo scandalo per corruzione che rischia di travolgerlo, portando il paese a elezioni anticipate. Proprio Olmert, con la visita in Turchia nel febbraio 2007, ha gettato le basi per le grandi manovre diplomatiche delle ultime settimane.
Ankara ha segretamente riallacciato un delicato negoziato fra siriani e israeliani, che non avevano contatti dal 2000 (per non parlare del sospetto sito nucleare di Damasco raso al suolo dall’aviazione israeliana nel settembre 2007). Negli ultimi mesi, invece, Yoram Turbovich, capo della segreteria del premier Olmert, e Shalom Turgeman, consigliere per la politica estera, si sono spesso recati ad Ankara. Per i negoziati i diplomatici turchi fanno la spola fra le delegazioni di Damasco e Gerusalemme. «Speriamo che si giunga presto a trattative dirette e a un incontro fra i leader dei due paesi» auspica Ugur Ziyal, ex ambasciatore turco in Siria, oggi a Roma.
Una data possibile è il 13 luglio a Parigi per il vertice dei paesi del Mediterraneo. Olmert scalpita da tempo per incontrare il presidente siriano Bashar al-Assad. In realtà è più probabile che attorno al tavolo parigino si ritrovino il presidente Shimon Peres e il ministro degli Esteri di Damasco. La posta in gioco? La restituzione alla Siria delle alture del Golan, conquistate dagli israeliani nel 1967. In cambio Israele vorrebbe strappare Damasco dall’abbraccio mortale con Teheran e con i suoi giannizzeri hezbollah in Libano. I siriani potrebbero pure ammorbidire Khaled Mashal, burattinaio dei fondamentalisti di Hamas in esilio a Damasco.
«Israele ha capito che, senza un accordo con il mondo arabo e i palestinesi, rischia di diventare come il Sud Africa ai tempi dell’apartheid. Con l’arrivo della nuova amministrazione Usa, le prospettive di pace diventeranno concrete» dichiara a Panorama Georges Jabbour, ex consigliere di Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano.
Sul fronte palestinese la fragile tregua di 6 mesi con Hamas nella Striscia di Gaza è un mezzo miracolo degli egiziani. Dopo 315 missili lanciati su Israele dall’inizio del 2008 è stato raggiunto un accordo in due fasi. Il cessate il fuoco è entrato in vigore il 19 giugno, con il graduale allentamento dell’embargo che strangolava il feudo di Hamas. La seconda fase sarà più delicata. Hamas deve liberare il caporale israeliano Gilad Shalit, rapito 2 anni fa. Se ne occupa Amos Gilad, l’alto funzionario del ministero della Difesa che ha condotto il negoziato al Cairo. L’architetto del negoziato è Omar Suleiman, ministro senza portafoglio egiziano e capo dei servizi segreti.
La consegna dell’ostaggio darà il via libera alla riapertura del valico di Rafah fra la Striscia e la penisola del Sinai (lungo i tunnel sottostanti passano le armi per Hamas). Prima della chiusura il valico era controllato da agenti europei sotto il comando del generale dei carabinieri Pietro Pistolese. Per bloccare il traffico di armi, però, Israele ora punta sull’Egitto.
«Stiamo andando nella direzione di una delicata coesistenza, ma la tregua resta fragile. Basta una provocazione da parte di un gruppuscolo oltranzista e salta tutto» spiega a Panorama Reuven Paz, analista del Centro di ricerche sui movimenti islamici di Herzliya che ha passato 23 anni nello Shin Bet, l’intelligence interna.
Il governo israeliano tratta segretamente anche in Cisgiordania con il moderato Abu Mazen. Entro il 2008 gli israeliani vorrebbero sottoscrivere un documento per un accordo di pace con i palestinesi. E la Giordania è disponibile a garantire la sicurezza.
Il terzo fronte delle manovre diplomatiche è il Libano. Un mese fa il Qatar ha chiuso l’accordo di Doha evitando che il paese dei cedri scivolasse nella guerra civile. L’emirato è l’unica nazione del Golfo a ospitare un ufficio israeliano di «interessi commerciali». E ad aprile Tzipi Livni, ministro degli Esteri israeliano, si era recato in Qatar per partecipare a un forum sulla democrazia.
Il 19 giugno il governo ebraico ha invitato il Libano ad aprire un negoziato di pace, dopo la disastrosa guerra del 2006. Da Beirut la risposta è stata freddina. Sul tavolo c’è la delimitazione dei confini: Washington preme su Gerusalemme per risolvere il problema delle fattorie di Sheeba. Il fazzoletto di terra ancora occupato dagli israeliani dopo il ritiro del 2000 è il pretesto di Hezbollah per giustificare la «resistenza» armata. Con i miliziani sciiti di Hassan Nasrallah si attende da un momento all’altro uno scambio di prigionieri mediato dalla Germania.
Nel 2006 Hezbollah prese in ostaggio i soldati israeliani Eldad Regev ed Ehoud Goldwasser, scatenando la guerra. Ora i miliziani sciiti chiedono in cambio il terrorista Samir Kuntar, che nel 1979 ammazzò a Nahariya quattro israeliani. Anche se, secondo il Mossad, i due militari sarebbero morti per le ferite riportate durante la cattura.
Ma Israele non ha accantonato l’opzione militare. All’inizio di giugno oltre 100 cacciabombardieri F-16 e F-15 hanno partecipato a grandi manovre al largo di Creta. La simulazione prevedeva un bombardamento in profondità con rifornimenti in volo. Una missione di quasi 1.500 chilometri, la stessa distanza fra Israele e l’impianto di arricchimento dell’uranio iraniano di Natanz. Ultimo avvertimento o prova generale dell’attacco?
«Israele è circondato da una tempesta di minacce appoggiate dall’Iran» osserva l’ex ministro degli Esteri israeliano Shlomo Ben-Ami. «Il governo vuole tentare tutti i canali diplomatici possibili, prima di andare di nuovo in guerra».
Per inviare una e-mail alla redazione di Panorama cliccare sul link sottostante