E viene l’autunno. Riaprono le scuole. Ecco, le notizie lette sui giornali, il Grande Incontro Plurifamigliare al sole di Livorno, il censimento con condanna incorporata, erano stati per me una ancora confusa avventura complicata, a diversi livelli o strati, straordinaria. Per esempio, la stessa espulsione dalle scuole del Regno aveva rappresentato per me una specie di astrazione. Ora però, all’inizio del nuovo anno scolastico, mi scontravo con la realtà. Non sarei più tornato nella stessa scuola, una succursale infilata nei caruggi dell’angiporto, sugli stessi banchi, tra gli stessi compagni che non sapevano nemmeno bene chi diavolo fossero gli ebrei e mi chiedevano se ero nato a Gerusalemme, ma senza malizia, senza malevolenza, al massimo invidiosi perché non seguivo l’ora di religione. Per la verità non seguivo troppo neanche la mia religione. Sì, andavo qualche volta al Tempio, a Pesach, la Pasqua ebraica, mangiavo le azzime per una settimana, e tutto finiva lì. Mia madre il sabato era più assidua al Tempio, forse perché si annoiava, mio padre era uno di quelli chiamati Kippurjude, cioè ebrei che al Tempio ci vanno solo il giorno di Kippur, quello probabilmente più sacro agli ebrei, anche se i rabbini dicono di no, che il giorno più sacro è il Sabato, lo Shabbat. Ora il mio essere ebreo non finiva più lì. Ero stato cacciato dalla mia troppo giovane vita di bambino tra i bambini per quel mio essere ebreo. Che colpe avevo io, o i miei genitori, parenti, amici? Perché d’un tratto aveva cambiato nome e proprietario la grande Libreria Treves? Perché il negozio di Croff in via XX settembre aveva sentito il bisogno di mettere in vetrina un grande cartello specificando che “Questo è un negozio ariano”? Perché le caricature ci facevano tutti brutti e cattivi, e persino i giornaletti per bambini dovevano far vedere un “giudeo” preso a calci da un balilla e spedito fuori dall’Italia? Dovevo riflettere bene sul mio essere ebreo. Questo per me ha voluto dire l’ottobre 1938. Un grande dolore. Avevo ancora undici anni. I miei genitori facevano il possibile per non farmi sentire il peso di quella bastonata in testa. E il possibile faceva il rabbino di Genova, quel Riccardo Pacifici che sarebbe poi stato arrestato, deportato e assassinato in un altro ottobre, nel 1943. Il rabbino Pacifici faceva in modo di tenere uniti i ragazzi della scuola ebraica, dai più piccoli ai più grandi. La domenica aiutava a organizzare per loro nelle diverse case ebraiche delle festicciole con tanto di grammofono a manovella (altri ancora non c’erano) che permetteva ai più grandicelli di ballare, ciò che peraltro era proibito per tutti, tra una fettina di dolce “autarchico” e un’aranciata. Si era alzato un muro attorno a noi. Mi sono reso conto di che cosa aveva voluto dire “Ghetto”. A papà non era stata ancora levata la licenza di artigiano. A lui e a suo cognato, mio zio, la polizia sarebbe andata a ritirarle il 17 febbraio del 1940, esattamente una settimana dopo il mio Bar Mizvà, tredici giorni dopo il mio dodicesimo compleanno, tre giorni prima che mio padre fosse colpito da un devastante infarto. Il 1938 doveva continuare dunque anche nel ’40 e oltre. Luciano Tas |