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Luciano Tas
Le storie raccontate
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Il mio 1938 - quarta parte 28/06/2008

Mentre venivano giù una dopo l’altra le disposizioni di legge contro gli ebrei – via dalle assicurazioni, dai posti pubblici e para-pubblici, dall’esercito, dalle banche (cassieri e non banchieri!) e così via, con contorni ameni, come il ritiro degli apparecchi radio dalle case, divieto di necrologi sui giornali, divieto d apparire sugli elenchi del telefono e così via – mentre stava succedendo tutto questo, ecco il censimento della popolazione. Qui si doveva rispondere anche alle domande “di che religione sei” e “di che razza sei” (ariana o ebraica), che non prometteva niente di buono.

Proprio per discutere di queste “promesse” veniva convocata una riunione di famiglia, anzi di famiglie tra loro collegate, in una specie di tribù o di clan molto esteso. Si trattava delle famiglie dei fratelli, dei cugini, dei cugini dei cugini, tutte al gran completo. E siccome tutti questi nuclei famigliari erano disseminati tra Firenze, Milano, Torino, Genova e Livorno (da dove tutte queste famiglie traevano origine), la location dell’incontro era stata eletta proprio quest’ultima città. Qui tra l’altro la villa sul lungomare dell’Ardenza serviva come “Centro congressi”. Lì tutti facevano capo, lì si raccoglievano in suprema Corte esclusivamente i capi-famiglia per decidere il da farsi.

Le donne potevano avere una funzione al massimo consultiva e a qualcuna era perfino permesso di assistere alle sedute. Ovviamente bambini, ragazzi e anche giovani ancora scapoli, erano esclusi.

I piccoli, tra cui naturalmente io, eravamo relegati i quello che allora mi pareva un immenso parco ma che probabilmente era solo formato da un gruppetto di alberi. Di andare al mare a fare il bagno non se ne parlava. Per gli ebrei l’ingresso era verboten, e devo dire che Livorno era tra le città italiane più antisemite, forse perché in un passato non lontanissimo gli ebrei costituivano una forte presenza nella città che il Granduca aveva fatto accorrere dai quattro angoli d’Europa garantendogli con una legge detta “Livornina” il privilegio di essere considerati quasi del tutto uguali agli altri (tutti discendenti da tipi come non troppo dissimili da quelli che non per loro volontà sono andati a popolare l’Australia).

Al dunque. Il “congresso” è durato parecchi giorni. Sostanzialmente si scontravano due tesi. La prima era detta “della bolla di sapone” perché chi la sosteneva amava dire:

La seconda invece si chiamava “dei partenti”, perché ritenevano invece che occorresse filar via dall’Italia il più presto possibile. E chiosavano (presso a poco) che .

Nella sostanza le due tesi avevano finito per coincidere, vale a dire che nessuno ha fatto niente, nessuno è partito. Non che i “partenti” non avessero convinto la maggioranza, ma si sa come vanno queste cose: qualche capo-famiglia aveva fermamente deciso di lasciare il paese, ma si dava il caso che la moglie avesse una sorella, e il marito di questa sorella fosse un “bolladisaponista”. E come si a a lasciare dietro di sé una sorella, dei nipoti e così via?

Poi però c’era un altro punto all’ordine del giorno: il Censimento.

Anche qui grande confronto tra due tesi e mezzo. La prima: bisogna obbedire e dichiararsi di religione e di razza ebraiche. Tesi di grande minoranza. La seconda: non rispondere alla prima e alla seconda. Variante (ma solo Einstein a quanto risulta era stato capace di scrivere alla voce “razza” la parola “umana”) evitare di rispondere alla domanda “di che razza sei”. Poi un pulviscolo di altre possibili risposte che navigano tra la prima e la seconda.

Penso che alla fine tutti abbiano chinato il capo, come del resto avevano fatto finora tutti gli italiani, e riposto correttamente “ebraica” alla domanda sulla razza. Con grande sbalordimento, con la sensazione ormai diffusa che le leggi contro gli ebrei non sarebbero state proprio “una bolla di sapone”, con crescente timore anche perché la Germania era vicina e alleata. Presto l’Italia sarebbe stata ancora più legata a Hitler con un “Patto d’Acciaio”.


Personalmente a Livorno mi sono molto divertito con i cugini veri, presunti e immaginari, e forse per a prima volta ho cominciato a guardare le prima ignorate “femmine” con occhio più attento. Ma l’ignorato qui ero io.

Mi vergogno un po’ a confessarlo, ma è stato in occasione del Grande Raduno che ho cominciato a pensare politica, come dire in un certo senso a smettere di essere bambino.

Era cominciato così. Gli adulti non volevano (o forse temevano di) comprare, assieme agli altri giornali (se gli ebrei fossero stati quanto immaginavano gli antisemiti, i quotidiani in quegli anni avrebbero registrato un vertiginoso aumento delle tirature), anche “L’Osservatore Romano”.

Perché l’Osservatore Romano? Perché, come organo di stampa malvisto dal regime ma tollerato perché era sempre il giornale del Papa, scriveva cose che gli altri giornali ignoravano.

I giornali, tutti i giornali, funzionavano seguendo fedelmente le “veline” (no, non c’era Striscia la notizia) fornite dal Minculpop che decideva cosa poteva essere pubblicato, e come, e in quale posizione del giornale, e con quali titoli, e cosa non doveva assolutamente essere pubblicato. Per evitare errori il Ministero mandava l’articolo già preparato, che veniva comunemente chiamato “velina”.

Così toccava a me, come bambino inoffensivo, andare dal giornalaio a chiedere (con il suo immaginabile stupore almeno iniziale) “L’Osservatore Romano”. Per mascherare un po’ quella richiesta, e per mio piacere personale, chiedevo settimanalmente “L’Avventuroso” e un quindicinale umoristico diretto da Giovanni Mosca “Bertoldo”, cui collaborava assiduamente Giovannino Guareschi. Il “Bertoldo” si permetteva tra l’altro qualche puntatine critica, fino ad essere una volta sequestrato (eravamo già in guerra) per avere condannato il saluto radiofonico di Mario Appelius che esordiva la sua trasmissione con un “Dio stramaledica gli inglesi”. Mosca lo aveva trovato un tantino volgare.


Luciano Tas

taslevi @alice.it


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