Il saggio di Jack Goody "Il furto della storia" recensito da Giorgio Israel sul FOGLIO del 27 giugno 2008, non riguarda il Medio Oriente, ma il rapporto tra l'Occidente e le altre culture.
Tuttavia, in esso non mancano gli stereotipi sulla nascita di Israele. Nè la riproposizione di una visione ideologicamente terzomondista della storia che non è senza rapporto con i pregiudizi che circondano il conflitto mediorentale e il rapporto tra Islam e Occidente.
Ecco il testo:
Grande è la tentazione di liquidare un libro, quando ci si imbatte subito in affermazioni che urtano la propria sensibilità. E’ il caso de “Il furto della storia” di Jack Goody (Feltrinelli, 416 pagine, 38 euro) e della sua ricostruzione delle vicende della formazione dello stato di Israele, ispirata ai più logori e falsi stereotipi, nonché della bizzarra affermazione secondo cui Israele non dovrebbe essere presentato come uno stato democratico poiché possiede un potente esercito: democrazia ed esercito sarebbero incompatibili. Ma Goody è uno dei più celebri antropologi viventi – Goody è un uomo d’onore – e un suo libro di più di 400 pagine non merita di essere liquidato per idiosincrasia nei confronti di qualche affermazione isolata. E’ un saggio il cui bersaglio è l’eurocentrismo e il “mito” secondo cui l’occidente avrebbe diritto a rivendicare una serie di creazioni: la cultura dell’antichità classica, l’umanesimo, il Rinascimento, la scienza, la tecnologia, il capitalismo, la democrazia. I capisaldi della civiltà moderna. Si tratterebbe, secondo Goody, di un “furto della storia” compiuto a molteplici livelli e che egli smaschera prendendo di mira l’opera di tre grandi intellettuali eurocentrici come Joseph Needham, Norbert Elias e Fernand Braudel. Compulsando il libro l’occhio dello storico della scienza corre all’indice analitico alla ricerca di nomi di scienziati e non se ne trova praticamente nessuno: Galileo è citato soltanto tre volte e, incredibilmente, Newton neanche una sola. I nomi dei più grandi filosofi dell’occidente non compaiono neppure: né Cartesio, né Spinoza, Kant e Platone figurano un paio di volte. Altro attacco di idiosincrasia… Ma Goody è un uomo d’onore e bisogna andare fino in fondo. Di fronte alla tesi secondo cui la scienza si sarebbe sviluppata sul continente europeo, Goody esclama scandalizzato: “Seguendo questo tipo di ragionamento gli scienziati cinesi insigniti in anni recenti del premio Nobel raggiunsero i loro risultati soltanto per una sorta di processo di imitazione!”. Ebbene, sì, è così, e il punto esclamativo è patetico. Goody crede forse che in Cina si faccia matematica algoritmica con le bacchette di bambù come un tempo? La scienza che si pratica in Cina è quella occidentale, quella che rappresenta il più straordinario fenomeno di globalizzazione della storia. Che la scienza europea sia debitrice di apporti provenienti dalla civiltà indiana e araba (assai poco dalla Cina), oltre che di quella greca, è fuor di dubbio, ma è la sintesi che conta, quel modo tutto speciale di concepire la conoscenza scientifica e il suo rapporto con la natura. Goody cita lo storico Mark Elvin secondo cui “intorno al 1600 la Cina possedeva in vario grado tutti gli stili di pensiero” individuati comunemente come caratteristici della scienza, a parte il pensiero probabilistico. La rivoluzione avvenuta in quel momento in Europa consistette soltanto in “un’accelerazione del ritmo con cui questi stili si svilupparono”. Tesi completamente sballata: chi conosca la matematica cinese sa che in essa non v’era pensiero geometrico, nulla di lontanamente paragonabile agli “Elementi” di Euclide. Invece, la matematica europea è nata dalla scoperta di Euclide assieme all’assimilazione dell’algebra araba e del sistema numerico indiano. Il fatto è che la cantonata di Elvin, ripresa acriticamente da Goody, è rafforzata dall’interlocutore che si sono scelti, ovvero lo storico della scienza marxista Joseph Needham, il quale si è posto il problema (detto da Goody “di Needham”) del perché la scienza sia nata in occidente (il che Needham dava per scontato) e ha tentato di spiegarlo in termini di strutture sociali. E’ evidente che in questi termini si perdono molti degli aspetti più caratteristici e originali della scienza europea. Per coglierli, occorre sviluppare un’analisi in termini di storia delle idee e comprendere che quel che caratterizza la nascita della scienza moderna è una serie di idee filosofiche e metafisiche assolutamente originali e che non si trovano in nessun’altra civiltà: l’idea di “legge naturale” e l’oggettivismo, da cui discende il principio che ogni fenomeno si ripete immutato a parità di condizioni iniziali, da cui discende a sua volta la possibilità stessa di una tecnologia. E’ una visione che rivoluziona il concetto di strumento: dalla macchina artigianale, “individuale” e concreta (ottenuta strappando segreti alla natura) si passa allo strumento “concettuale”, basato su leggi scientifiche, come il cannocchiale di Galileo o l’orologio “preciso”.
Le “griglie” in cui tutte le vacche sono grigie
Tutto questo Goody decide di ignorarlo, in quanto discenderebbe da un modo di concettualizzare tipicamente “eurocentrico”… Goody ragiona soltanto in termini sociologici, antropologici, di modi di produzione, commerciali, e mai e poi mai in termini di “idee” e di concetti. Propone di ricorrere a un sistema di “griglie” in cui il confronto tra scienza europea e altre scienze viene appiattito su questioni in cui il carattere altamente concettuale, diciamo pure deduttivo della scienza europea viene fatto sparire. Tutte le vacche diventano grigie e le differenze si riducono a questioni di intensità o di velocità. Ma, in tal modo, il problema non è risolto, bensì eliminato dichiarandolo inesistente per decreto. Si tratta di una visione che rappresenta la quintessenza di quel pensiero post moderno che fu efficacemente definito “una forma di marxismo debole per le società opulente”. Esso è il paradigma del suicidio della cultura occidentale che nega se stessa con lo strumento di categorie concettuali (perché, alla fin fine, altro non sono le griglie di Goody) le quali sono ironicamente la quintessenza di un approccio “essenzialista”.
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