Da La STAMPA del 23 giugno 2008 un articolo di Abraham B. Yehoshua.
Ieri, 22 giugno 2008, abbiamo pubblicato una critica a un altro articolo di Yehoshua pubblicato dal quotidiano di Torino
(vedi il link: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=110&id=24991 )
Ci sembra che Yehoshua scriva in modo diverso per i giornali israeliani ( come nel caso dell'articolo di oggi su Littell ?) rispetto a quanto fa per quelli europei, o in generale stranieri.
Sarebbe dunque opportuno che La STAMPA, quando pubblica un articolo dello scrittore israeliano, precisasse se si tratta di una traduzione (e dove è stato pubblicato l'originale) o di un pezzo scritto direttamente per il giornale. I lettori hanno diritto di saperlo. Invitiamo dunque tutti i nostri lettori a scrivere alla STAMPA chiedendo di accompagnare gli articoli di Yehoshua con questa informazione
Ecco il testo dell'articolo:
Nelle librerie israeliane è arrivata la traduzione ebraica delle Benevole di Jonathan Littell, ben presto approdata anche alla mia scrivania. L'esame letterario, etico e psicologico a cui il libro verrà sottoposto in Israele sarà, per forza di cose, un po' diverso da quello che ha sostenuto in altri paesi. Essendo Israele lo Stato degli ebrei, la memoria della Shoah è viva e attiva nella coscienza generale, anche a causa della presenza di numerosi sopravvissuti usciti ancora in vita - seppur martoriati e feriti - dalle atrocità descritte con imperturbabile freddezza dall'ufficiale delle SS Max Aue, protagonista del romanzo di Littell.
Alla luce di questa premessa ci si poteva aspettare che l'autore del libro, nell'intervista concessa a un rispettabile giornale israeliano, si mostrasse cauto e comprensivo verso il pubblico dei suoi futuri lettori. Ma, a quanto pare, Jonathan Littell non solo non si è dato la pena di moderare le proprie esternazioni, anzi, ha espresso opinioni molto dure che, più di quanto intendessero provocare sdegno, rispondevano probabilmente a un suo impulso di rivelare, consapevolmente o meno, i motivi che lo avevano spinto a calarsi nel corpo e nell'anima di un ufficiale delle SS e a narrare le sue gesta in prima persona per più di 900 pagine. Motivi di cui dubito lui stesso abbia coscienza.
Alla domanda del giornalista «lei si definirebbe ebreo?», Littell ha risposto con fermezza: no, assolutamente no. Questa risposta è a dir poco strana, visto che nella sua conversazione con Pierre Nora, pubblicata sulla rivista Le Débat del marzo-aprile 2007, Littell si qualificava esplicitamente come ebreo. In verità, secondo la mia personale definizione dell'identità ebraica, che racchiude anche l'implicita problematica di questa identità, ebreo è chiunque si consideri tale. Ma cosa porta una persona a cambiare pubblicamente identità nel volgere di un anno? Questo comportamento non denota forse un problema di identità interiore? E se è così, qual è questo problema e in che modo la sua trasposizione e concretizzazione in un personaggio letterario creano un senso di alienazione nei confronti del romanzo? Nel prosieguo dell'intervista Jonathan Littell paragona, con alcune lievi e garbate riserve, il comportamento dei soldati israeliani nei territori occupati a quello dei nazisti prima e durante la seconda guerra mondiale. Littell non è un poeta ascetico e dall'animo delicato incappato in un paragone avventato, sovente accettato presso certi circoli. È un uomo che ha condotto approfondite ricerche e ha descritto in centinaia di pagine e con dettagliata minuzia le atrocità naziste. È un uomo con una sviluppata e fondata coscienza storico-politica, e il suo rozzo e inconcepibile paragone tra il comportamento dei nazisti e quello dei soldati di Tzahal in Cisgiordania non scaturisce da ingenuità o ignoranza, ma piuttosto da un desiderio intimo e occulto concretatosi nello scandaloso personaggio immaginario da lui creato e che la fantomatica esistenza di «soldati israeliani nazisti» dovrebbe rinsaldare e giustificare.
Israeliani e palestinesi combattono per il controllo di un territorio, come hanno fatto molti altri popoli prima di loro nel corso della storia. L'occupazione israeliana non è razzista né nazista e nemmeno gli attentati terroristici palestinesi lo sono. Da ormai più di un secolo è in corso un'amara disputa tra israeliani e palestinesi riguardante questioni territoriali, non di identità né di legittimità nazionale o religiosa. I nazisti sterminarono gli ebrei non per motivi di ordine ideologico, territoriale, economico o religioso ma per il solo fatto di esistere. Il loro accanimento contro gli ebrei e gli zingari si ascrive a una categoria a sé, non solo per la sua natura ma anche per i picchi di follia omicida da esso raggiunti. Era diverso persino da quello, di stampo ideologico, con il quale i sanguinari seguaci di Pol Pot, in Cambogia, perpetravano i loro massacri. Ne consegue che chi ha scritto un intero libro calandosi nel cuore del nazismo, dei campi di morte e di sterminio, dovrebbe per lo meno capire questa differenza essenziale. Ma se insiste a non farlo, a parlare dei soldati di Tzahal come di «nazisti», ciò significa che nella sua testa, o meglio, nella sua anima, c'è qualcos'altro.
In una conversazione di Jürg Altwegg con Claude Lanzmann (il regista di Shoah) pubblicata nel novembre 2007 sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, Lanzmann dice: «L'uomo delle SS di Littell parla spesso come un ebreo. Ho detto a Littell che non è mai esistito un uomo delle SS simile a Max Aue. Lui lo sa, eppure ha replicato: senza Max Aue il libro non ha diritto di esistere».
Claude Lanzmann ha forse riconosciuto che la vera natura dell'ufficiale delle SS di Littell non è nazista e che la sua perversione (l'incesto con la sorella, l'assassinio di sua madre e del suo compagno ecc.) è un modo per mascherare, nascondere e confondere una lotta tra identità interiori differenti ispirata probabilmente a quella del suo autore? Questo ufficiale delle SS è infatti indifferente e insensibile non solo ai cadaveri degli ebrei e dei russi intorno a lui, ma anche alla distruzione della Germania, al paesaggio di morte e di devastazione delle sue strade descritto negli ultimi capitoli del libro. Anche il morso che dà al naso di Hitler non avrebbe potuto essere compiuto da un ufficiale delle SS fanatico e imbevuto di ideologia quale l'autore pretende di forgiare nel corso del libro (un ufficiale che durante una conversazione con Himmler spiega di non volersi sposare per poter dedicare tutte le sue forze e il suo talento alla rivoluzione nazista). Sembra piuttosto una trovata infantile alla Woody Allen che svela la contorta e occulta natura interiore del personaggio.
Da ciò consegue che anche l'incesto con la sorella gemella, che Max ama fin da quando erano nel ventre della madre, come lui stesso sostiene, è parte integrante della sua identità, contro la quale non smette mai di lottare. In una delle scene più depravate del libro Max, in visita con la sorella in un museo di strumenti di tortura a Parigi, si nasconde con lei nella sala della ghigliottina, le fa infilare la testa nel buco destinato al condannato e la sodomizza contro la sua volontà. È forse questa la metafora più riuscita del gioco sadomasochistico che Max conduce con la propria identità e che permette probabilmente anche di capire qualcosa di quella del suo autore che un giorno è ebreo e quello seguente non lo è più, e che può, con tanta facilità, proclamare i soldati dell'esercito israeliano «nazisti» e la politica di Israele nei territori occupati una conseguenza della Shoah, quando invece la storia è piena di atti di occupazione molto più duri e arbitrari di popoli che non sono mai stati vittime di uno sterminio.
Occorre ammettere che il libro è scritto con grande talento, con una sbalorditiva capacità di raccogliere ed elaborare materiale storico. Tuttavia il suo nocciolo è una «strada senza uscita» molto problematica perché l'autore non è completamente consapevole dell'identità ibrida del personaggio che dà vita al romanzo. E così Littell ringrazia Claude Lanzmann in una lettera: «Mi sono reso conto del vicolo cieco al quale conduce il libro solo dopo aver terminato di scriverlo… Questa contraddizione, questa strada senza uscita, si esprime nel fatto che il libro vuole mostrare che chi ha fatto la Shoah erano persone banali, ordinarie. Si possono dire molte cose del protagonista del libro, ma non che sia banale e ordinario… Il modo in cui è stato concepito lo rende un personaggio impossibile».
Questo «vicolo cieco», che l'autore onestamente riconosce, rappresenta anche la grande debolezza letteraria delle Benevole, e chi è si affrettato a proclamarlo «un capolavoro del XXI secolo» dovrebbe mostrare a mio parere una maggiore prudenza.
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