Le autobiografie sono sempre una lettura istruttiva, Si impara spesso più dalle storie personali che dai libri di storia. REPUBBLICA di oggi, 21/06/2008, a pag.39, dà notizia della prossima uscita del libro di Amos Luzzatto, in un articolo-intervista di Simonetta Fiori, dal titolo "Io, ebreo di sinistra, con la Bibbia dentro il PCI". Non avendo ancora letto il libro, ci affidiamo alla pagina del quotidiano romano. L'autore ne esce come un personaggio che ha compiuto 80 anni, un vita lunga e densa di avvenimenti. Forse averli vissuti all'interno di un partito come il PCI, qualche traccia pesante la si avverte fin dalle sue prime parole. C'è chi da destra non ha mai fatto i conti con il passato fascista, ma lo stesso destino sembra verificarsi anche a sinistra con chi è stato comunista per una vita intera, senza mai sentire il bisogno di uscirne. Si può essere nostalgici anche del comunismo, se non si sono fatti i conti in tempo. Dalle parole di Amos Luzzatto, così come le ha riferite Simonetta Fiori, si direbbe che questo conto non sia ancora avvenuto. Questo spiega la sua dichiarazione " Quando vado in Israele, dopo tre giorni sogno in ebraico. Ma lì non mi ritrovo più ". Per ritrovarcisi di nuovo. Luzzatto dovrebbe svegliarsi dal sogno comunista, e rendersi così conto che sogno non è mai stato, bensì un incubo. Ma forse, a 80 anni, è troppo tardi.
Ecco l'articolo:
«Ebreo di sinistra, così mi sono sempre definito. In pochi capivano cosa volesse dire, a 80 anni spero d´averglielo spiegato». Nella bella casa veneziana di Campo di Lana, Amos Luzzatto ti accoglie con quella sua caratteristica parlata che ne restituisce un miscuglio di origini e tradizioni, mai romanesca - nonostante l´infanzia nella capitale - a tratti veneta, per lo più triestina a causa della nonna Emma Curiel. I figli fanno amorevolmente notare la cadenza "yeke" se parla ebraico, e una sintassi ricercata che pochi israeliani oggi saprebbero utilizzare. «Un comunista che parla ebraico? Per alcuni, un´assurdità. In Israele c´è ancora chi se ne stupisce».
"Memorie di un ebreo di sinistra" è anche il sottotitolo dell´autobiografia scritta per l´ottantesimo compleanno, Conta e racconta, avventurosa cavalcata attraverso illusioni e tragedie del secolo breve e di quello successivo (Mursia, pagg. 272, euro 17: sarà presentata lunedì a Milano allo spazio Oberdan, insieme a un numero speciale della rivista Keshet, da Ferruccio de Bortoli, Piero Fassino, Giulio Giorello e Salvatore Natoli). Chirurgo per passione, profondo conoscitore della Bibbia e della letteratura rabbinica, Luzzatto è stato interprete di un ebraismo insieme classico e moderno, religioso e laico, israeliano e diasporico, umanistico e scientifico, una sorta di "Maimonide" lo definisce l´amico-gemello Paolo De Benedetti, "guida dei perplessi" tra ebrei e non ebrei. Ha condotto le comunità ebraiche tra il 1998 e il 2005, in anni di transizione assai impervi - la nuova destra postfscista a Palazzo Chigi, le guerre tra Islam e Occidente, le gravi minacce su Israele - «trovare una linea comune m´è costato sforzi bestiali, anche un infartino», aggiunge con una luce di bonomia nello sguardo. La presidenza arrivò a sorpresa, «nessuno se l´aspettava, tanto meno io». Confessa d´aver sofferto di solitudine, «a parte l´affetto di alcuni collaboratori, non ho avvertito un grande seguito». Ma forse le decisioni più difficili, aggiunge, si prendono sempre da soli.
Ad Amos, figlio d´un socialista manganellato negli anni Venti dalle camicie nere, un antifascista finito in ospedale psichiatrico, è toccato in sorte di rappresentare gli ebrei italiani quando l´allora premier Berlusconi definì il confino di Mussolini una vacanza di lusso. «Tra noi ci fu un incontro imbarazzante. Io gli parlavo della durezza del regime, di mio padre sorvegliato dalla polizia, del suo epilogo tragico, e lui mi guardava soave e ignaro, di tanto in tanto una carezza sulla mia mano. Come se non capisse, non volesse capire».
Sempre ad Amos, cacciato a dieci anni dalle scuole italiane, apostrofato come "giudeo" per strada, cresciuto col complesso del "mignolo ricurvo" («secondo un´amica di famiglia era una caratteristica della razza, avrei passato molto tempo ad esplorare i mignoli ariani»), a lui costretto nel 1939 a emigrare con la madre e i nonni Lattes in Palestina, è spettato l´arduo compito di accompagnare il postfascista Gianfranco Fini nella sua storica visita allo Yad Vashem di Gerusalemme. «È stata una delle scelte più laceranti, un dramma personale. La notte prima del nostro incontro non ho chiuso occhio. All´alba conclusi che, se Fini avesse riconosciuto i crimini della sua famiglia politica, il mio viaggio non sarebbe stato inutile. Così fu. Ma quante malignità e fantasie su quel viaggio». Rivela per la prima volta che, prima del colloquio pubblico in Israele, volle incontrare privatamente il segretario di Alleanza Nazionale. «Ricavai l´impressione di avere davanti a me un uomo dall´indiscutibile passato turbolento, ma convinto della necessità di imboccare una strada nuova. Io però non ero convinto della maturità di tutto il suo partito». Timori nel tempo rafforzati. «Fini aspira a guidare una destra democratica, ma alcune sue recenti gaffes da presidente della Camera mi lasciano perplesso. E anche il processo di revisione storica sul fascismo mi sembra incompiuto. La dittatura non è cominciata con le leggi antisemite. Il fascismo è stato razzista fin dai suoi primi passi, in quanto sciovinista e per la sua idealizzazione delle conquiste imperiali romane. Vogliamo dimenticare quel che i fascisti fecero agli sloveni? Per sottrarsi alla volontà del duce, mio padre che era professore rifiutò una cattedra a Gorizia. Le leggi contro gli ebrei sono conseguenza coerente di questa ideologia, però oggi si tende a rimuoverlo».
Se è difficile essere ebreo, è ancor più difficile essere "ebreo di sinistra". Guardato con sospetto da parte della comunità, e non compreso fino in fondo dal proprio stesso partito. Quando fu eletto in Consiglio dell´Unione delle Comunità, nel 1986, arrivò una lettera di dissenso: in quanto militante del Pci, egli avrebbe potuto far la spia a un supposto comitato di ebrei comunisti. «Una follia! Quel comitato non esisteva affatto, c´era invece nella direzione del Pci una "Commissione di lavoro per le relazioni con Israele". I miei referenti erano Giorgio Napolitano e Piero Fassino. Era interesse di tutti sviluppare questa linea nel segno del confronto».
Anche a sinistra i pregiudizi hanno pesato, e non poco. «A lungo è prevalso un terzomondismo globale che ha fatto parteggiare per i popoli ex coloniali, arabi compresi. In questa lettura distorta, il sionismo e Israele sono stati liquidati come nemici. Anche inconsapevolmente, talvolta l´avversione politica è scivolata nell´antisemitismo». Contro queste zavorre, Luzzatto ha lavorato con tenacia, dentro il Pci e all´interno del sindacato. Se la sinistra ora è approdata a "una interpretazione più corretta ed equilibrata" - gli riconosce pubblicamente Fassino - il merito è anche suo.
Al Pci s´iscrisse nel 1946, appena diciottenne. "Un´isola felice" nella Roma sfigurata e offesa del dopoguerra. La conoscenza dell´ebraico gli permise fin da principio di collaborare all´Ufficio Esteri. «Eugenio Reale pareva molto disciplinato. Umberto Terracini mostrava più autonomia, solido come una quercia. Alle liturgie di Reale preferiva un più spiccio: "Domani ne parlo con Palmiro". Una volta venne a Roma Kalman Gelbart, anziano dirigente del partito comunista ebraico. Voleva convincere i sovietici delle buone ragioni per la costituzione di un nuovo Stato unitario. Al cospetto di Luigi Longo, lo aiutai a tradurre il suo rapporto dall´ebraico ma, quando fu ammesso nella stanza di Togliatti, da vecchi internazionalisti presero a parlare entrambi il russo. Di me non c´era più bisogno, rimasi fuori dalla porta». Un altro incontro storico con il comunismo internazionale fu a Rostov, nel 1968, dopo l´addio di Kruscev. «Dai funzionari del Pcus volevamo sapere qualcosa di più sulle "dimissioni" del segretario generale, ma le nostre domande caddero nel gelo. "Compagni, noi abbiamo fiducia negli organismi dirigenziali del nostro partito…"».
Dall´ortodossia comunista Luzzatto è come immunizzato, cresciuto in quella palestra cosmopolita che fu la Palestina ebraica tra gli anni Trenta e Quaranta. «Dissero che eravamo quattro gatti, illusi e velleitari. Per me fu una stagione magica». Tra i suoi maestri Leibowitz e Martin Buber, naturalmente Dante Lattes, il celebre biblista che fu per lui nonno-papà, avendolo cresciuto in assenza del padre rinchiuso in ospedale. «Erano tutti studiosi di prim´ordine, profughi dalla Germania, dall´Austria, dall´Italia, dalla Germania, dall´Europa dell´Est. M´insegnarono soprattutto a rompere con la barriera dell´italianità. Là ho imparato a guardare oltre frontiera»
Oggi il rapporto con Israele è più culturale che politico, affidato alla conoscenza di tradizioni e lingua. «Non voglio sentir dire: "sono d´accordo con il governo israeliano senza se e senza ma". Voglio sentir dire: "Israele esporta un´identità in cui mi riconosco". Mi hanno accusato di eccesso di tepore, ma sono stato l´unico presidente ad aver tenuto a Gerusalemme un consiglio delle comunità ebraiche italiane». Quando va in Israele, dopo tre giorni sogna in ebraico, «e tuttavia non vedo il clima nel quale saprei ritrovarmi, tra Gerusalemme sempre più incline all´ortodossia e Tel Aviv sempre più copia degli Stati Uniti». Ebreo di sinistra, è una vita che cerca di spiegare il perché. «Ma non è poi tanto difficile capire. Le istanze egualitarie e di giustizia le ho ricavate proprio dalla cultura ebraica. La Bibbia ne è ricca, basta cercarle».
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