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La Stampa Rassegna Stampa
19.06.2008 Il caso dei pistacchi importati dall'Iran in Israele
il racconto di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 19 giugno 2008
Pagina: 17
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Prendi il nemico per la gola»

Da La STAMPA del 19 giugno 2008:

Il nucleare in Iran è questione di primo piano, in costante emergenza politica ai quattro angoli del mondo. Ma anche con i pistacchi, c'è poco da scherzare. Ovviamente la scissione dell'atomo è cosa di ben altro peso, ma gli Stati Uniti non hanno preso alla leggera la scoperta di una connection «sotterranea» della nobile acardiacea, a cavallo di un improbabile asse strategico. Pistacchi iraniani, cioè, acquistati da Israele, malgrado l'embargo commerciale e i rapporti - paradossalmente inesistenti e burrascosi al tempo stesso - fra i due Paesi.
Viste le proteste americane rivolte ad Israele, vista l'incandescente situazione politica, verrebbe da dire che non si tratta di noccioline. Se non fosse che proprio di quelle, o quasi, si tratta. Gli israeliani, infatti, non è che siano patiti di gelato tinta verde - e poi il gusto pistacchio fa anticato, ormai, fa Anni 70, è roba vecchia ovunque. Gli israeliani non sono nemmeno, se non in minima ed elitaria parte, cultori della cucina creativa d'alta gamma. Ma i pistacchi li adorano e li consumano in quantità industriali, così come tutti gli altri semi e semini che nella lingua della Bibbia passano sotto il nome comune di botanim.
Noci, nocciole, mandorle, semi di girasole, fino ad arrivare al nobile pistacchio incastonato nel suo guscio, occupano banchi interi di mercato e chioschi e vetrine. Sono buoni in ogni momento della giornata, altro che l'happy hour dell'aperitivo. Sarà fors'anche colpa dello stress di vivere in un Paese dove l'imprevedibile - e purtroppo anche il prevedibile - è sempre in agguato, fatto sta che gli israeliani sono consumatori compulsivi di tutte queste cose sgranocchiabili non particolarmente dietetiche ma se non altro naturali. Tutt'al più, appena appena salate e tostate a puntino. Ecco perché i pistacchi iraniani non sono noccioline.
Ma l'asse della frutta secca non solo tocca cruciali questioni politiche. Svela anche, in fondo, che là dove la diplomazia non arriva, ci pensa da sempre la cucina. Quella israeliana - erede a modo suo dell'ebraica - è in tal senso un esempio tanto significativo quanto paradossale. Si fonda infatti su due presupposti culturali. Il primo è il cibo della diaspora, in particolare quello «ashkenazita» - che in ebraico significa «tedesco». Cibo europeo carico di una memoria dolente, se pensiamo che i capisaldi di questa cucina parlano la stessa lingua dello sterminio, un tedesco appena impastato di ebraico: Gefilte fisch (pesce ripieno), beigele (ciambella), schnitzel (cotoletta impanata).
Il secondo è il cibo arabo, mediorientale e ormai transculturale: la pita e l'humus e i falafel e il kebab. In Israele si mangia tutto questo e tanto altro, in un continuo incontro di sapori.
E se fino a qualche anno fa la sciagurata e obesogenica dieta americana rappresentava ancora un modello - se non altro per comodità di preconfezionato -, ora gli israeliani guardano al Mediterraneo come bacino di tradizione alimentare. Tenendo sempre d'occhio le due coordinate culinarie fondamentali - l'araba per un verso e quella dell'Europa centrosettentrionale per l'altro. In parole povere, i luoghi dei due grandi, tragici conflitti vissuti dall'ebraismo in questi ultimi cento anni.
E' proprio vero, a tavola le barriere cadono - persino in una tradizione alimentare come quella ebraica, così fitta di divieti e di separazioni. Eppure, proprio questa tradizione, così limitata dalle regole della kasherut e da una storia spesso ingrata, ha oggi imparato che mangiare «come» il nemico è un passo indispensabile per arrivare, un giorno o l'altro, a mangiare «con» il nemico. Perché in cucina le convenzioni, le demagogie e i pregiudizi finiscono puntualmente sminuzzati come verdure da soffritto, si perdono nei profumi del brodo. E questo accade non soltanto in Israele - ma da sempre e ovunque nel mondo: il cibo è refrattario alle regole della politica. Spesso, fortunatamente, è anche un gentile presagio. Mangiando le stesse cose, prima o poi ci si viene incontro davvero. E una volta seduti alla stessa tavola, si finisce con lo scoprire che ci si assomiglia più del previsto. Perché, come diceva quel saggio d'Estremo Oriente, siamo quel che mangiamo. E mangiamo quello che siamo.

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