Da PANORAMA del 13 giugno 2008 un articolo di Stella Pende sulle aspiranti terroriste suicide di Gaza. Vittime della violenza israeliana, amanti della vite spinte a gesti estremi dalla disperazione. Così rislutano le volenterose carnefici di Hamas nel pezzo della giornalista, che dimentica la propaganda di odio di Hamas.
Una propaganda non dissimile da quella del regime fascista a favore delle leggi razziali. Di quella propaganda, un esempio principe fu il Manifesto per la difesa della razza. Primo firmatario, nel 1938, un altro Pende, lo scienziato Nicola.
Ecco il testo:
Bendata, dentro una Mercedes gialla a pezzi che corre nei vicoli di Gaza. «Adesso esci piano e non guardarti intorno» mi dice il ragazzo Amir, lungo come i suoi razzi Kassam. Distesa di ulivi infinita. Come la paura. D’improvviso all’orizzonte due ombre nere schizzano tra gli alberi come due felini. Testa foderata dalla kefiah, armi dappertutto. «È la prima volta che un giornalista incontra due martiri pronti a morire» dice il ragazzo. Mente: è la prima volta che un giornalista incontra due kamikaze donne. Perché sono due ragazze quelle che ho davanti con gli occhi che scintillano da una fessura del cappuccio. È vero che vi farete esplodere in quel modo atroce? Perché morire e uccidere? Perché?
Risponde Um Watam (la madre della patria), nome di battaglia di questa soldatessa delle brigate del Fronte popolare di liberazione della Palestina: «Perché il vostro mondo, per far contento quel corrotto di Ehud Olmert (premier israeliano, ndr), ci ha già condannato a morte». Um dondola il suo Kalashnikov come se fosse un neonato affamato. «Dopo la presa di potere di Hamas, a Gaza più di 60 morti. Loro hanno i razzi, non si sporcano le mani di sangue. Noi abbiamo una sola arma: i nostri corpi».
L’altra Um Arab (la madre dell’arabo) sta zitta come una statua. Ma i vostri figli? Non è snaturato abbandonarli così? «Facile per voi giudicare, signora». Due vere lacrime cadono da quelle fessure del cappuccio. Galera degli occhi.
«Lei non può sapere cos’è la mia disperazione. I suoi figli studiano e domani si innamoreranno. Davanti ai miei c’è il nulla. Se un giorno però Gaza sarà libera, allora capiranno il sacrificio della loro madre». Se continuate con gli attacchi kamikaze, condannate a morte la vostra gente. Gaza diventerà una città di morti viventi. «Io sono già morta. Anche i miei figli e anche i neonati che nasceranno domani. Guardi...» mi porta la mano sulla sua. È ghiacciata. «Non c’è più sangue nelle mie vene. Addio!».
Le miliziane scompaiono mentre ho un tonfo nella gola. Il ragazzo Amir aggiunge un dettaglio sorpresa: Um Arab combatte nelle file dei martiri di al-Aqsa, il braccio armato di Al-Fatah. Ma come, i terroristi di questa organizzazione non erano spariti? Il presidente palestinese Abu Mazen, dice Amir, «è riuscito a fermare i suoi guerrieri maschi. Ma le donne no. Sono più dure e non sono comprabili».
Le donne di Gaza: in questa città tritata da bombe e massacri, gli uomini che contano sono talpe umane che lavorano sottoterra. Quelli di Al-Fatah sono emigrati a Ramallah. I veri signori di Hamas non possono esistere pubblicamente. «I missili israeliani ne sentirebbero l’odore» dice Amir. Per molti altri la galera: 1.500 prigionieri, tra cui 40 deputati di Hamas, stanno chiusi nelle carceri israeliane. Così le donne di Gaza entrano nella pelle e nelle vite degli uomini. Le parlamentari di Hamas hanno avuto le deleghe per rappresentare amici e mariti prigionieri. Importanti associazioni sono dirette da donne. E anche fabbriche. «Non dimentichiamo che Hamas ha stravinto le elezioni anche grazie all’impegno sociale delle sue donne» spiega Ryad Malky, politologo autorevole. «Da lì comincia la scalata femminile della jihad al potere».
La Mercedes gialla ritorna nel cuore della città ostaggio di rottami di guerra. La fila per la benzina è un serpente con la coda lunga 1 chilometro. E il petrolio, ricordiamolo, è il sangue di una città. Apparizione: in mezzo alla distruzione ecco la sede principesca dell’associazione Mujamma, dove incontrerò una delle signore eccellenti della città.
Lusso spinto, scale, marmi e un formicaio di donne foderate di bianco. Suore senza faccia. La padrona, Rasha Rantisi, moglie del supremo leader di Hamas Abdul Aziz Rantisi, ucciso da Israele dopo l’elezione a guida spirituale al posto dello sceicco Yassin, ci aspetta in una stanza oceanica con ricco tappeto su misura. Hamas, diciamolo, non è un’organizzazione affamata come la sua città.
«Mujamma non accoglie soltanto centinaia di donne, orfani e poveri, ma nutre la rivoluzione delle donne. L’associazione fa perfino corsi di computer».
Ecco il grande contrasto delle donne nell’Islam di Hamas e in quello dei loro parenti libanesi Hezbollah. Comandano, vogliono, decidono, ma diventano sempre più radicali nell’essenza religiosa. Il sorriso sinistro dello sceicco Ahmed Yassin brilla sulla parete. Potere e Corano: è ancora questo il suo credo. Ricorda l’attimo esatto dell’assassinio di suo marito? «Una grande esplosione e la radio annunciò che il dottor Abdul Aziz era morto» dice parlando del coniuge come se fosse il suo imam. «Allora sono corsa a lavarmi e a pregare. Ma Ariel Sharon non ha avuto la soddisfazione di una sola mia lacrima».
Fuori dal castello della replicante con velo si riaffonda nella peste di Gaza. Un ciuco scheletrito trascina mezzo morto un carro pieno di uomini che lo bastonano a sangue. È come il popolo di Gaza, che muore innocente sotto il peso della guerra tra Hamas e Israele. Guerra estranea al suo dolore.
Oggi in parlamento si discute la legge sullo sport. Impossibile affrontare leggi più importanti. La camera intera è stata trasferita nelle prigioni d’Israele. Sulla parete il ritratto di Aziz Duwaik, il presidente del parlamento carcerato, e quello di Yasser Arafat, presidente per sempre. La sala pullula di giovani e vecchie donne. Nel primo banco discutono due deputate note alle cronache cittadine: Jamila Shanti, eroina degli scudi umani, e Mariam Farhat, madre di tre martiri (i malevoli la chiamano «fabbrica di shahid»). Jamila esce dalla sala. Lei ha finalmente bocca, naso e un sorriso materno ben in vista. Si mette davanti alla foto con i 40 tra i parlamentari e i ministri arrestati.
«Vogliono umiliarci e ridurci a barbari senza leggi. Ma non ci arrendiamo. Ho sei deleghe. Penserò e voterò per loro. Sono il ventriloquo perfetto dei miei amici deputati prigionieri». Ma è la cultura della morte che vi consuma, Jamila... «Capirebbe di più se rimanesse a Gaza per 1 mese. Ma io combatto la fame di morte. “Venite ad affrontare una palestinese viva e vera!” urlo quando sfiliamo come scudi umani davanti ai loro carri armati».
Ha gli occhi lucidi, Jamila, e racconta dell’assedio israeliano alla moschea di Bethanun: «Era il novembre 2007. Andiamo noi a liberare quei 70 poveracci, ho detto alle mie donne. I carri israeliani erano lì. Immensi. Noi marciavamo piano, tenendoci per mano. Hanno sparato. Quanto sangue innocente... Alla fine i prigionieri erano liberi».
Anche Mariam Farhat, la madre dei martiri, ci invita nella sua casa. Elegante anche quella con il quadro della Mecca illuminato dalle lucine. Hamas premia le famiglie dei suoi martiri. Chiedo: come si fa a volere la morte di un figlio a cui si è data la vita?«Non la vuoi, ma l’accetti con dolore per amore della Palestina» risponde mentre rughe come rami secchi le invadono la faccia.
Insisto: lei ha perso tre figli martiri, ma con il terzo ha girato anche il video di addio. Sapeva tutto? «Certo. Gli ultimi mesi ha voluto dormire con me. Mi stringeva. Mi accarezzava». Mostra il filmato: Omar fascia verde in testa e sul cuore la dinamite. E poi l’addio. «Ho pianto tutte le mie lacrime» dice come in un copione mal recitato. L’ideologia che mangia la maternità non è accettabile. Un bimbetto ricciuto si affaccia alla porta. Un dubbio da brivido attraversa la testa: non aspetterà anche lui di diventare grande per morire? Mariam ha «sentito» il pensiero: «Lui farà come vuole. I due figli che restano conoscono già la strada giusta».
Gaza è in preda a un delirio di morte? Finalmente, nelle stanze della Coopi, ong italiana a Gaza, trovo una risposta. Tre ragazze normali, belle e affamate di vita: «Faccio l’architetto e so che un giorno costruirò il museo della cultura più bello del mondo» ride Hanya. «E io reciterò con George Clooney!» ride Diana. Le ragazze mi scortano alla libreria pubblica dedicata a Diana Tamari Sabbah, vera mecenate. Una meraviglia. «Siamo come strappati da due condanne. Da una parte i missili di Israele e dall’altra Hamas. Ma a Gaza siamo 1 milione e mezzo di persone. La città vera e le sue donne sperano nel futuro. La morte non vincerà. Lo giuro».
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