Sergio Romano, rispondendo a un lettore sul CORRIERE della SERA del 16 giugno 2008 sostiene che il Papa, come ha incontrato Geroge Bush, così avrebbe dovuto incontrare Ahmadinejad. Così facendo Benedetto XVI "avrebbe potuto comunicare le sue impressioni a George W. Bush".
Purtroppo, la politica di Ahmadinejad è nota. Riceverlo non avrebbe permesso nuove inedite "impressioni", ma avrebbe legittimato il tiranno:
Due mesi fa abbiamo visto Benedetto XVI alla Casa Bianca davanti alla torta di compleanno offertagli dal presidente Bush. Oggi lo stesso presidente è accolto in Vaticano con onori e trattamento tutti speciali e passeggia col Papa nei giardini vaticani. Ma proprio nessuno in Vaticano è consapevole di quanto sangue coli dalle mani di quell'uomo che con l'inganno e la menzogna ha dato il via a una guerra che ancora continua in Iraq? Guerra che Giovanni Paolo II tentò di scongiurare in ogni modo, inascoltato proprio da colui che oggi viene come lupo travestito da agnello a intrattenersi bucolicamente nel verde con Benedetto XVI e lo definisce «messaggero di pace». Che il Santo Padre voglia recuperare la pecorella smarrita o che ci sia dietro qualche altro scopo?
Alberto Rossi
nonsapreiproprio2002@ yahoo.it
Caro Rossi,
N
on credo che l'espressione «mani sporche di sangue» si adatti a George W. Bush. Ha commesso un clamoroso errore politico, ha dato retta a pessimi consiglieri, ha preso decisioni avventate di cui ha male calcolato le conseguente e, forse, non è particolarmente intelligente. Ma non è un assassino ed è persino possibile che credesse di agire, invadendo l'Iraq, per il bene del suo Paese se non addirittura dell'umanità.
Il vero problema che lei pone implicitamente nella sua lettera è il significato di una udienza papale. L'incontro del Papa con un uomo pubblico, soprattutto quando è capo dello Stato o esponente del Governo, non comporta il riconoscimento delle sue virtù morali e non è un attestato di benemerenza. Quando ricevette Aleksej Adzhubej, direttore della Tass e latore di un messaggio della dirigenza sovietica, Giovanni XXIII non intendeva dare benedizioni o assoluzioni. Si limitava ad aprire una fase della diplomazia papale che avrebbe consentito alla Chiesa di esercitare una limitata opera apostolare nei Paesi satelliti dell'Urss. Quando visitò Cuba e strinse la mano di Fidel Castro, Giovanni Paolo II non intendeva giustificare la politica poliziesca del regime, voleva permettere ai cattolici cubani di uscire dall'ombra in cui avevano vissuto per molti decenni.
Le ragioni dell'udienza, nel caso di Bush, sono ancora più evidenti. L'inquilino della Casa Bianca, chiunque sia, è il primo cittadino di una grande potenza mondiale in cui vive una forte comunità cattolica e dove il Papa è stato entusiasticamente ricevuto negli scorsi mesi. Se avesse rifiutato di riceverlo, Benedetto XVI non avrebbe offeso soltanto Bush, ma anche e soprattutto i suoi connazionali. E avrebbe perduto l'occasione di affrontare con il presidente degli Stati Uniti i problemi che maggiormente preoccupano la Chiesa in questo momento fra cui, in particolare, quello dei cristiani in Iraq. A chi avrebbe dovuto rivolgersi se non a Bush per lamentare le condizioni di una comunità che ha vissuto indisturbata per molti secoli in un Paese islamico e che oggi, minacciata nella vita e nei beni, è costretta a scegliere fra la clandestinità e l'esilio?
Approfitto della sua lettera, caro Rossi, per aggiungere che il Papa, a mio avviso, avrebbe dovuto ricevere anche il presidente della Repubblica dell'Iran con cui la Chiesa Romana, del resto, ha rapporti diplomatici. La giustificazione adottata per rifiutare l'udienza («troppe personalità politiche presenti a Roma per il vertice della Fao») lasciava intravedere un chiaro imbarazzo. Se avesse ricevuto Ahmadinejad, Benedetto XVI avrebbe potuto comunicare le sue impressioni a George W. Bush. E l'incontro con il presidente americano sarebbe stato ancora più utile.
Su PANORAMA Romano loda la strategia araba e turca dei "cordiali rapporti" con Teheran. Anche se è evidente che, qualora essa venisse adottata anche da Usa e Ue, il regime degli ayatollah avrebbe ancora meno remore a perseguire la sua politica di riarmo e destabilizzazione.
Ecco il testo:
In un articolo pubblicato in Israele e in alcuni paesi arabi, Joschka Fischer, ministro degli Esteri tedesco nel governo Schröder, sostiene che il Medio Oriente sta scivolando verso un conflitto, probabilmente nel corso di quest’anno, e indica nel programma nucleare iraniano una delle principali cause dell’instabilità internazionale.
In un discorso pronunciato di fronte alla maggiore lobby filoisraeliana degli Stati Uniti, Barack Obama, candidato democratico alla presidenza, ha dichiarato che avrebbe fatto di tutto per impedire all’Iran di avere armi nucleari; e ha ripetuto «tutto» più volte.
Durante il suo viaggio a Washington, il primo ministro israeliano Ehud Olmert ha detto che la comunità internazionale ha un obbligo: «Fare comprendere all’Iran, con misure drastiche, che le ripercussioni del proseguimento del suo programma nucleare sarebbero devastanti». In una intervista il vicepremier del governo di Gerusalemme, Shaul Mofaz, ha detto che le sanzioni contro l’Iran sono prive d’effetto e che Israele, se Teheran continuasse a perseguire la costruzione di armi nucleari, attaccherebbe.
George W. Bush ha detto ad alcuni giornalisti italiani che l’opzione militare contro l’Iran è ancora all’ordine del giorno. Siamo quindi alla vigilia di una nuova guerra? Qualcuno, non soltanto in Israele, sostiene che il presidente degli Stati Uniti potrebbe ricorrere alle armi nel periodo (circa 3 mesi) che separa l’elezione del successore dal suo arrivo alla Casa Bianca. I profeti della guerra sostengono che l’operazione sarebbe più facilmente realizzabile se il presidente scelto dagli americani fosse il candidato repubblicano John McCain, un uomo politico che ha sempre sostenuto, contro l’Iran, la linea della fermezza.
È probabile che Fischer abbia colto questi segnali e lanciato un ammonimento, ispirato dal desiderio di evitare la guerra con un supremo sforzo negoziale. Ma l’ex ministro degli Esteri non sembra essersi accorto che il rischio di un conflitto ha già prodotto le iniziative di cui abbiamo parlato su questa pagina: i negoziati fra Israele e Siria per le alture del Golan grazie ai buoni uffici della Turchia, quelli fra Israele e Hamas per una tregua a Gaza con la mediazione dell’Egitto, il patto di Doha tra le fazioni libanesi con l’intermediazione dell’emiro del Qatar e della Lega araba.
Nei paesi arabi e in Turchia non vi è meno diffidenza per il programma nucleare iraniano di quanta ve ne sia a Washington. Però gli arabi e i turchi, a differenza degli Stati Uniti, hanno deciso che il miglior modo per evitare il conflitto non è quello di lanciare continui anatemi contro il programma nucleare iraniano. Preferiscono mantenere cordiali rapporti con l’Iran (il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha visitato l’Arabia Saudita nel marzo dell’anno scorso) e cercare di spegnere i fuochi delle crisi mediorientali, dalla Palestina al Libano.
Molto interessanti a questo proposito sono i rapporti fra l’Iraq e l’Iran. Quando il governo di Baghdad cercò di riprendere in mano le province del sud, sfuggite al suo controllo, e si scontrò con le milizie sciite di Moqtada al-Sadr, l’accordo fu raggiunto in territorio iraniano grazie alla mediazione di Teheran. E il premier Nouri al-Maliki, leader di un paese occupato dagli Stati Uniti, era a Teheran negli scorsi giorni per incontrare Ahmadinejad, appena rientrato da Roma. Vi è anche qualche raggio di sole fra le nuvole che incombono sul Medio Oriente.
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