Una deliziosa corrispondenza da New York sul FOGLIO di oggi, 15/06/2008, dal titolo " Il parrucchiere del Mossad ", una lettura domenicale che offriamo ai nostri lettori. Finchè c'è ironia c'è speranza.
Il New York Times l’ha definita “la più bella commedia post sionista, sexy, d’azione con un supereroe parrucchiere mai vista”, ma – appunto – è anche l’unica mai prodotta, quindi l’ha massacrata. Non c’è grande critico americano che non abbia bocciato “You don’t mess with the Zohan”, film da quaranta milioni di dollari al botteghino nel primo weekend. Il film è un disastro, scrivono, ma tutti hanno dovuto ammettere che fa anche molto ridere. Zohan è il primo film comico sul conflitto israelo-palestinese, un divertentissimo concentrato dei luoghi comuni su ebrei e arabi che tutti pensano, ma che nessuno ha il coraggio di ripetere in pubblico. Una via di mezzo tra “Porky’s” e un saggio di Foreign Affairs. Il tasso di scorrettezza politica è troppo elevato per i critici cinematografici liberal, alcuni dei quali si sono anche impegnati a sottolineare che il film non è politicamente equilibrato perché ci sono più battute sui palestinesi che sugli israeliani. Zohan è una versione fumettistica dell’agente del Mossad di “Monaco 1972” di Steven Spielberg, abbigliato come John Travolta nella “Febbre del sabato sera”, ingenuamente ossessionato dal sesso come Borat, capace di catturare terroristi arabi come Spider Man oppure di annodarli a forma di pretzel e con il sogno di diventare parrucchiere a Manhattan. Una storia così merita già applausi a scena aperta ancora prima di acquistare il biglietto, tanto più che è stata scritta non solo dall’attore Adam Sandler (Zohan), ma anche dal suo vecchio compagno di college Judd Apatow, il geniale regista e produttore delle più divertenti e politicamente scorrette commedie sentimental-giovanilistiche degli ultimi anni (“Molto incinta”, “Superbad”, “Talladega nights” e molti altri). Il cattivo del film è Phantom, un terribile capo terrorista (in realtà un gran codardo, come tutti i terroristi) che Zohan cattura più volte ma che Israele continua a rilasciare in cambio di un ostaggio israeliano ancora da nominare. Phantom è interpretato da unJohn Turturro con gli stessi vestiti e tic e bandana di quando interpretava il campione di bowling in “The Big Lebowsky” dei fratelli Coen. Lì si chiamava “Jesus”, qui sulla bandana jihadista sfoggia un “Allah Akbar”. Il film è pieno di battute sofisticate e situazioni esilaranti, metà a sfondo sessuale, metà geopolitico. Gli israeliani sono rozzi, imbroglioni, maniaci sessuali. Gli arabi pure e non si capisce per quale motivo non vogliano riconoscere Israele. Le improbabili lotte acrobatiche tra Zohan e i terroristi coinvolgono spesso gli organi genitali e sono accompagnate da dotte argomentazioni su quale dei due popoli sia arrivato prima in quelle terre. Quando Zohan, con poster di Moshe Dayan in cameretta, dice ai genitori che vuole lasciare l’antiterrorismo per andare a New York per fare lo stilista di capelli, il padre pensa che sia diventato gay e la madre lo rassicura dicendogli che lui è già un artista, “un Rembrandt dotato di granata”. Zohan finge di essere stato ucciso da Phantom e scappa in America, dove riesce a realizzare il suo sogno di parrucchiere e a soddisfare sessualmente tutte le signore anziane a cui fa la messinpiega. A New York, come in “West Side Story”, ebrei israeliani e arabi palestinesi vivono gli uni di fronte agli altri. Si guardano in cagnesco, sono sempre pronti alla rissa, ma in realtà preferiscono discutere se siano più belle le gambe di Michelle Obama o quelle di Cindy McCain. “Dopo l’undici settembre, per noi è dura qui”, dice malinconico un palestinese. “Anche per noi – risponde un ebreo – spesso ci scambiano per voi”. Tutti mangiano hummus. Zohan si lava anche i denti con l’hummus. Un tassista arabo lo riconosce, il dovere jihadista lo chiama e telefona subito al servizio clienti di Hezbollah. Gli risponde una voce registrata che dice: “A causa della tregua in corso, non possiamo fornire l’aiuto desiderato, si prega di richiamare appena i negoziati falliscono”.
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