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La Repubblica Rassegna Stampa
13.06.2008 "Esuli" palestinesi ? La Storia è diversa da quella che racconta Said
per conoscerla meglio leggere Efraim Karsh

Testata: La Repubblica
Data: 13 giugno 2008
Pagina: 51
Autore: Edward W. Said
Titolo: «Strappati dalla patria»
La REPUBBLICA del 13 giugno 2008 pubblica un'anticipazione di una raccolta di saggi di Edward Said.
Il brano scelto è dedicato al tema dell'esilio, e in particolare all' esilio palestinese. L'esilio, sostiene Said è una "condizione istituita precisamente per negare ogni dignità - e cioè per negare ogni tipo di identità a un popolo" .

La realtà storica è però molto diversa dalla criminalizzazione di Israele sistematicamente riproposta da Said. Di seguito, il link a una rticolo dello storico israeliano Efraim Karsh, che spiega l'origine del problema dei rifugiati palestinesi, al di là della propaganda:

  http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999930&sez=120&id=24608

L´esilio è qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi. È una crepa incolmabile, perlopiù imposta con forza, che si insinua tra un essere umano e il posto in cui è nato, tra il sé a la sua casa nel mondo. La tristezza di fondo che lo definisce è inaggirabile. Se è vero che la storia e la letteratura sono gremite di gesta eroiche e slanci romantici, di imprese gloriose e azioni trionfali tutte compiute da vite in esilio, tali episodi non sono che meri tentativi di lenire il dolore inconsolabile provocato dal distacco e dall´estraneità. Le conquiste di un esule sono costantemente minate dalla perdita di qualcosa che si è lasciato per sempre alle spalle.
Eppure, una volta ammesso che l´esilio allude di per sé a una condizione di perdita definitiva, perché mai la rappresentazione che se ne dà nella cultura moderna ha potuto tradursi in un tema tanto potente e ricco di suggestioni? Abbiamo iniziato a familiarizzare con l´idea di una modernità orfana, spiritualmente alienata: l´era dell´ansia, dello straniamento generalizzato. Nietzsche ci ha insegnato il disagio nei confronti di ogni tradizione, Freud a vedere nella stessa intimità familiare la facciata rispettabile di una violenza sorda, parricida e incestuosa. La cultura dell´Occidente moderno è in larga parte il prodotto di esuli, emigrati, rifugiati. Negli Stati Uniti, per esempio, il pensiero accademico, intellettuale ed estetico, è quello che è in primo luogo grazie a chi è fuggito dai fascismi, dal comunismo o da altri regimi - conseguenza più o meno immediata ma reale della repressione e dell´espulsione in massa di dissidenti. Ciò ha indotto George Steiner ad avanzare la tesi più che fondata per cui un intero genere della letteratura occidentale del XX secolo dovrebbe considerarsi "extra-territoriale": una letteratura da e sull´esilio, che ipostatizza questo tempo come il tempo dei rifugiati. Scrive Steiner: «Sembra sensato, quasi fisiologico, che tutti coloro che creano arte in una civiltà semi-barbara, che ha saputo produrre un´enorme massa di sradicati, passando da una lingua all´altra si trasformino in poeti erranti e senza fissa dimora. Individui eccentrici, distaccati, inclini alla nostalgia, deliberatamente inopportuni».
Già in altre epoche gli esuli sono stati associati ad analoghe visioni cross-culturali e transnazionali, hanno sofferto le stesse frustrazioni e miserie, hanno svolto lo stesso ruolo lungimirante e critico - descritto in modo brillante, per fare un esempio, nel classico studio di E.H. Carr sugli intellettuali russi che nel XIX secolo si erano raccolti attorno alla figura di Herzen, i Romantic Exiles. Ma la differenza tra gli esuli del passato e quelli del presente è soprattutto - ed è essenziale ribadirlo - un fatto di scala: il nostro tempo, il suo moderno imperialismo militare, le ambizioni quasi teologiche dei suoi governanti dispotici e totalitari, è il tempo dei rifugiati, dei profughi, dell´immigrazione di massa.
Di contro a questo scenario vasto e impersonale l´esilio non può venire invocato a sostegno di ipotesi umanistiche: per le proporzioni che assume nel XX secolo non è più comprensibile né esteticamente né umanisticamente. La letteratura sull´esilio potrà tutt´al più restituire un senso di angoscia e di indecidibilità che pochi hanno vissuto in prima persona; ma pensare l´esilio che informa questa letteratura come qualcosa di potenzialmente benefico e "umanistico" significa prima di tutto banalizzarne le mutilazioni: il costante senso di perdita inflitto a coloro che lo provano sulla pelle, il silenzio sordo che oppone a ogni tentativo di interpretarlo come qualcosa di "positivo", di good for us. Non è forse vero che le visioni dell´esilio che affollano la letteratura e la religione finiscono per trasfigurare ciò che in realtà esso contiene di autenticamente terribile: che l´esilio è una condizione irrimediabilmente secolare e insopportabilmente storica; che è sempre un´imposizione che alcuni esseri umani esercitano su altri esseri umani; che, come la morte, ma senza il definitivo "beneficio" che questa concede, ha strappato milioni di persone al nutrimento di una tradizione, una famiglia, una geografia?
Incontrare un poeta in esilio - esperienza opposta a quella di leggere poesie sull´esilio - significa vedere le antinomie dell´esilio incarnate e sopportate con un´intensità assolutamente senza pari. Molti anni fa mi capitò di frequentare con una certa assiduità Faiz Ahmad Faiz, il più grande poeta contemporaneo in lingua urdu. La dittatura militare di Zia lo aveva costretto a fuggire dal Pakistan, paese dove era nato, e a trovare un riparo di fortuna nella disastrata Beirut della guerra civile. In quella situazione sui generis, tra i suoi amici più intimi vi erano - del resto potrà sembrare ovvio - molti palestinesi, ma nonostante esistessero non pochi elementi di affinità spirituale tra la sua condizione individuale e quella degli esiliati palestinesi, avvertivo chiaramente che quasi nulla coincideva davvero - a cominciare dalla lingua e dalle convenzioni poetiche, per arrivare alla storia personale. Solo una volta, quando a Beirut giunse anche Eqbal Ahmad, un amico pachistano che condivideva la nostra stessa sorte, Faiz sembrò superare quel sentimento di straniamento che lo accompagnava costantemente. Ricordo tutti e tre, seduti in uno squallido ristorante di Beirut, con Faiz che recitava alcune sue poesie, e a un certo punto, senza neppure rendersene conto, lui ed Eqbal che smisero di tradurmi i versi. In quella notte interminabile, però, la cosa non ebbe alcuna importanza. Ciò a cui stavo assistendo non aveva bisogno di traduzioni: era la messa in scena di un ritorno a casa, modulata sul tono della sfida e della perdita, come per dire: «Zia, siamo qui». Ed è chiaro che Zia fosse il solo a potersi dire davvero a casa, e per questo mai avrebbe potuto ascoltare quelle voci esultanti ed esaltate.
Rashid Hussein era un palestinese. È stato lui a tradurre in arabo Bialik, uno dei più grandi poeti ebrei moderni: la sua eloquenza ne aveva fatto un oratore e un nazionalista senza pari nel drammatico periodo dopo il 1948. Mosse i primi passi lavorando per un giornale in lingua ebraica a Tel Aviv e, successivamente, pur avendo sposato la causa di Nasser e del nazionalismo arabo, tentò con un certo successo di instaurare un dialogo tra scrittori ebrei e arabi. Col tempo, però, non fu più in grado di sopportare le pressioni di quell´ambiente saturo, e fu costretto a partire per New York. Sposò una donna ebrea e iniziò a lavorare all´ufficio dell´Olp alle Nazioni Unite, ma le sue idee poco convenzionali e la sua retorica utopica, al limite della farneticazione, finivano sistematicamente per traumatizzare i superiori. Nel 1972 lasciò New York per far ritorno nel mondo arabo. Pochi mesi più tardi riapprodò negli Stati Uniti: in Siria e in Libano si era sentito fuori posto, displaced, al Cairo profondamente infelice. New York gli diede di nuovo asilo, facendolo però precipitare in una spirale infinita di ozio e di alcol. La sua vita era distrutta, ma nonostante questo rimase sempre l´uomo più ospitale che abbia mai incontrato. Morì dopo l´ennesima notte naufragata nell´alcol, mentre fumava nel letto, e la sigaretta appiccò un incendio che si sparse fino agli scaffali in cui teneva delle audiocassette - perlopiù riproduzioni di poeti che leggevano i propri versi. Il fumo prodotto da quei nastri in fiamme lo asfissiò. Il suo corpo venne rimpatriato per essere sepolto a Musmus, il piccolo paese d´Israele dove ancora risiedeva la sua famiglia.
Queste e molte altre storie di poeti e di scrittori in esilio conferiscono particolare dignità a una condizione istituita precisamente per negare ogni dignità - e cioè per negare ogni tipo di identità a un popolo.

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