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La Repubblica Rassegna Stampa
12.06.2008 Artisti in esilio dall'Europa, accolti in America
ne tratta un libro di Joseph Horowitz

Testata: La Repubblica
Data: 12 giugno 2008
Pagina: 0
Autore: Antonio Monda
Titolo: «Artisti in esilio le braccia aperte dell´america»

Da La REPUBBLICA del 12 giugno 2008:

Il grande esodo di artisti e intellettuali europei avvenuto in America nella prima metà del ventesimo secolo è diventato il soggetto di un interessante libro pubblicato negli Stati Uniti con il titolo Artists in Exile: how refugees from twentieth century war and revolution transformed the american performing arts (Harper, pagg. 459, $ 27,50). Lo ha scritto Joseph Horowitz, ex critico musicale del New York Times ed autore, tra gli altri, di un libro molto apprezzato su Arturo Toscanini. Sono numerosi i testi che analizzano e celebrano l´America nella sua essenza di terra di emigranti e di opportunità, ma ciò che rende particolarmente stimolante Artists in Exile è il racconto del rapporto creativo tra personaggi diversi per tradizione, cultura, personalità e talento con la realtà artistica, prima ancor che sociale, del mondo nuovo.
Horowitz sa di avere di fronte a sé una galassia sconfinata che tuttora continua ad arricchirsi, e preferisce quindi soffermarsi su personalità emblematiche, alternando l´aneddoto all´analisi sociale e culturale. L´autore si chiede cosa sia rimasto della rispettiva cultura d´origine nel momento in cui questi artisti hanno cominciato a lavorare negli Stati Uniti, e cosa abbia significato l´«americanizzazione» da un punto di vista artistico, sia in termini positivi che negativi. Equivale necessariamente ad una commercializzazione, e quindi alla perdita dell´ispirazione più pura, in altre parole dell´anima? O invece il confronto con una realtà governata dal mercato ha esaltato i talenti, portando gli artisti a risultati che non avrebbero mai potuto conseguire nelle rispettive terre d´origine? Questa riflessione porta ad un´analisi che prescinde il dato puramente creativo: la capacità di adattamento è intrinsecamente legata anche al momento storico in cui gli artisti in questione si sono trasferiti, e persino all´età in cui sono arrivati nel nuovo mondo.
Solo per rimanere in ambito cinematografico è evidente la differenza di approccio e risultati tra i registi che sono arrivati ancora giovani in America e quelli che invece sono emigrati in età più matura. Non solo: coloro che sono arrivati in gioventù hanno finito per rimanere negli Stati Uniti, realizzando pellicole di grande bellezza, che hanno consentito di comprendere in maniera illuminante l´America dall´interno. Si pensi a Billy Wilder, Fred Zinnemann, Otto Preminger, Douglas Sirk, William Wyler (ma si possono includere anche Ernest Lubitsch e Michael Curtiz). Diverso il caso di registi di straordinaria qualità come Jean Renoir, Fritz Lang, Max Ophuls e Victor Sjostrom, che riuscirono certamente a dirigere dei film notevoli e a volte anche affascinanti sugli Stati Uniti, ma non si sentirono mai a casa, e raccontarono l´America da stranieri. Non è un caso che dopo alterne vicende decisero tutti di tornare in Europa.
In un lungo saggio pubblicato sulla New York Review of Books l´ex direttore del New Yorker Robert Gottlieb rileva come il titolo del saggio sia fuorviante: molti dei personaggi che hanno trasformato lo spettacolo americano, analizzati nel libro di Horowitz, non sono affatto dei rifugiati. E´ il caso di due dive di primissima grandezza quali Greta Garbo e Marlene Dietrich: la prima si trasferì ad Hollywood nel 1925 quando fu messa sotto contratto dalla Metro Goldwyn Mayer e decise di rimanere a New York anche dopo il definitivo ritiro dallo schermo. La seconda scelse l´America nel 1930, prima dell´avvento di Hitler. E´ assolutamente vero che la Dietrich testimoniò pubblicamente la sua netta ostilità al nazismo (Horowitz scrive che negli anni della guerra divenne la «tedesca buona»), e si rifiutò di tornare in patria, nonostante le ripetute offerte da parte del regime. Ma è anche vero che scelse con grande gioia di diventare cittadina americana, vivendo quella nuova realtà più come una opportunità che come un rifugio.
Un difficile rapporto con la patria d´origine lo ebbe anche George Balanchine, che fuggì dall´Unione Sovietica nel 1924, e vi ritornò per la prima volta in visita quaranta anni dopo. Detestò la nuova realtà al punto da tornare immediatamente a New York e dichiarare in ogni occasione quanto fosse orgoglioso di avere il passaporto americano.
Negli ultimi decenni le immigrazioni sono soprattutto asiatiche e latine, e se, è ridotto ma non esaurito l´elemento persecutorio, che ha generato nella prima metà del Novecento in primo luogo la diaspora ebraica, tra le motivazioni che causano nuove immigrazioni è rimasta la dolorosa costante della povertà.
L´opportunità rappresenta tuttora un momento di privilegio, e sin dagli inizi fece premio l´arte di arrangiarsi.
Horowitz racconta che Leopold Stokowski, chiamato a condurre la Philadelphia Orchestra nel 1912, dichiarò di avere ventinove anni anziché venticinque. Molti anni dopo Boris Aronson disegnò un set in stile costruttivista per un famoso allestimento di Company, ma si guardò bene dallo spiegarlo ai suoi committenti, che avevano chiesto uno spettacolo che esaltasse l´arte americana. Sono stati molti coloro che hanno accettato con entusiasmo e semplicità quanto offriva l´America (Balanchine era un grande fan dello showman Jack Benny), mentre ce ne sono altri che hanno tenuto un atteggiamento a dir poco contraddittorio: Stravinskij attaccò pubblicamente Walt Disney per quello che a suo avviso rappresentava culturalmente e politicamente, ma non esitava a trattare con lui dei lauti compensi economici.
Nulla di nuovo, ma quello che interessa maggiormente Horowitz è come poi questi grandi artisti si sono integrati, e a volte hanno rivoluzionato la cultura americana. Una volta che riuscì a condurre la Philadeplhia Orchestra, Stokowski cominciò a dirigere con entusiasmo le opere dei grandi compositori contemporanei americani, e si deve in gran parte a lui la scoperta, la diffusione e quindi la celebrazione di musicisti quali Barber e Copland. Diversa invece la scelta artistica di molti altri conduttori, a cominciare da Toscanini, che scelse l´America come luogo della libertà e di opposizione al fascismo, e decise di esaltare in particolare il genio europeo, contribuendo in maniera determinante alla diffusione dell´opera e della musica classica. Il testo spiega come gran parte delle istituzioni musicali statunitensi siano state fondate da emigranti, e analizza come siano diventate il luogo privilegiato in cui musicisti americani della seconda generazione hanno potuto trovare il terreno fertile per rielaborare una cultura ancestrale in una terra che non era più straniera.
Ovviamente l´America non rappresentò per tutti il luogo dell´opportunità e forse anche della felicità: Hindemith e Schoenberg decisero di diventare cittadini americani, Stravinskij non si sentì mai del tutto a casa, mentre Béla Bartók visse l´esperienza come un periodo di grande disagio da risolvere al più presto. Tra coloro che vengono celebrati maggiormente ci sono Alla Nazimova, che per prima osò coniugare la recitazione con il realismo, e Rouben Mamoulian, il regista proveniente dall´emigrazione armena che rivoluzionò il teatro e l´opera statunitense, prima di diventare famoso soprattutto per la carriera cinematografica. Il suo allestimento di Porgy and Bess è considerato il migliore di sempre, e le critiche dell´epoca scrissero che nessuno aveva mai colto così nell´intimo lo spirito di Gershwin e della gente di colore.
La sua riuscitissima americanizzazione trovò la massima compiutezza in altri allestimenti memorabili come Carousel e Oklahoma! e in un classico del musical come Love me tonight. Non ebbe mai recensioni osannanti per la musica realizzata negli Stati Uniti Kurt Weill: in molti pensarono che aveva svenduto il suo talento al mercato americano, ma non ha torto Gottlieb ad obiettare che forse uno spartito come l´Opera a Tre Soldi Weill non l´avrebbe mai più scritto, neanche se fosse rimasto in Europa.
Erich Korngold, invece, nativo di Brno, era diventato uno dei più affermati direttori d´orchestra viennesi: quando venne chiamato a Hollywood per comporre la musica delle Avventure di Robin Hood, furono in molti a criticarlo per una scelta così commerciale. Lui scelse di accettare l´offerta e la sorte volle che si imbarcasse con la nave pochi giorni prima che Hitler invadesse l´Austria. Arrivò in America che non aveva più una patria, e dopo aver vinto un Oscar per quel film, divenne uno dei più grandi e celebrati autori di colonne sonore americane nelle quali infuse un raffinato e malinconico retrogusto mitteleuropeo.

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