Pubblichiamo un articolo apparso nell’inserto culturale del Sole 24 di domenica 8 giugno a firma Gabi Scardi intitolato Israele allo specchio
Neri musei di Gerusalemme ( e in quelli di Haifa e Tel Aviv) una serie di mostre esploreranno la produzione artistica del Paese dal 1948 al 2008. Tra incubi, paure e speranze di pace.
Un Paese speciale. Un Paese che una geopolitica impietosa condanna, da sessant’anni, a dover riaffermare ogni giorno la decisione di esistere. Un Paese che vuole e dispera, così occupato a sopravvivere che rischia di dimenticare che la forza, prima che a domare gli altri, deve servire a controllare se stessi: parole di uno dei suoi massimi intellettuali, Amos Oz.
Un popolo che da sempre, a nutrirlo e tenerlo in vita, è stata la cultura, che ha dotato lo Stato di accademie e di musei prima ancora che nascesse. E oggi, che quel Paese pare a volte non trovare più piloti né difensori, pure ha ancora una voce, quella degli artisti, che non si arrendono e scavano, e fanno emergere, dando forma a tutto ciò di cui laggiù, a volte, si è troppo stanchi per parlare.
La tensione è una forza che aziona, e qui, dove per quanto si tenti, neanche per un momento è possibile dimenticare il conflitto, produce risultati potenti.
Questa la riflessione suscitata dalla visita alle prime tappe dell’ampia iniziativa Sixty Years of Art in Israele ideata dai musei israeliani per i sessant’anni dello Stato: un ciclo di sei mostre che esplorano, decennio per decennio, l’arte d’Israele dal 1948 oggi. I musei coinvolti sono Israel Museum di Gerusalemme, Ashdod Museum of Art, Ein Harod Museum of Art, Haifa Museum of Contemporary Art, and Tel Aviv Museum of Art.
A inaugurare per prime le sezioni riguardanti I decenni recenti: Eventually we’ll die ad Herzliya, per il 1988-1998, e Real Time: Art in Israel 1998-2008 a Gerusalemme (fino a fine agosto).
In Israele, il primo di questi decenni, come una parentesi tra le due Intifada, ha visto una speranza di pace, con gli Accordi di Oslo e il sogno di un nuovo, più vivibile Medio Oriente; ha visto gli artisti permettersi una sorta di trattenuta euforia, un’apertura verso temi internazionalmente condivisi. E anche se lo shock dell’assassinio di Rabin rende obbligatoria una dolorosa autoanalisi collettiva, a prevalere nelle opere degli artisti sono ansie esistenziali da passaggio d’epoca legate allo scadere del millennio, con temi legati alla sensibilità personale, al corpo, all’identità, al genere.
Non che la narrativa individuale si possa risolvere in se stessa: qui, più che ovunque altro, è inscindibile da quella sociale e politica.
Così nelle opere in mostra la spettacolarizzazione dell’oggetto e l’interesse per i meccanismi mediatici si coniugano con un senso di catastrofe, con corpi che desistono e si sfanno, con la paura della morte, ma anche con una sofferta e reattiva vigilanza nei confronti degli orrori dell’occupazione nei territori.
In mostra, opere come le serie fotografiche di Adi Nes, reinterpretazioni di modelli iconografici aulici dalla tradizione artistica occidentale impersonati da giovani uomini, spesso in abbigliamento militare: storie bibliche e mitologiche, soggetti sacri o profani complicati da una sensibilità omosessuale che sa fondere l’imperituro e il contingente, l’erotico e il politico. O come la Iron Door Tent (from Temple Mount) di Sigalit Landau, ruvida tenda da campo che dice fragilità, precarietà, ed è segnata da un fuoco che, insieme alla tenda, ha combusto il paesaggio intero e l’ha reso infecondo. La mostra comprende la nota serie di fotografie sull’occupazione pubblicate su “Haaretz” nell’arco di anni da Gideon Levy and Miki Kratsman: a suggerire la realissima e pressante presenza del tragico, imprescindibile retroscena.
Ci trasferiamo a Gerusalemme. Qui, nell’Israel Museum, sono esposte opere degli ultimi dieci anni: quelli della seconda Intifada, dell’inasprirsi delle violenze, dello sgombero da Gaza che costituisce un’altra prova dolorosa per l’identità del paese, e della seconda guerra in Libano, sentita da molti come pesante ipoteca su ogni speranza di pace. Intanto il Paese vive drammaticamente, anche se di riflesso, la situazione internazionale, l’11 settembre, la guerra in Iraq. Pochi degli artisti in mostra riprendono direttamente questi eventi. Ma ogni opera pare animata da una tensione interna implacabile, capace di scardinare la superficie delle cose.
I lavori esposti in Real Time dicono terrore per una catastrofe che assume una dimensione globale, una smania di fuga verso territori lontani, reali o immaginati; danno forma a mitologie, fantastiche, a paesaggi primordiali e sublimi. Fuga vana: sono visioni da incubo notturno versione surreale, come nei quadri di Eliezer Sonnenschein; o tragicamente sardoniche, come nell’installazione di Adam Rabinowitz: in un romantico paesaggio illuminato dalla luna piena, a risvegliarci dalla rêverie è l’improvviso apparire di una scimmietta spaventosamente ghignante. Erez Israeli espone gigantesche teste mozze in cemento i cui occhi, apparendo tra i fori di passamontagna calati, ancora ci perseguitano con sguardi ben vivi.
Pare che con Israele non sia permesso neppure il ricordo di una vacanza, un senso di cupa oppressione si proietta ovunque; basti pensare alla videoinstallazione multi schermo di Mira Pereg: nelle sue immagini lente e dilatate una Parigi attanagliata dalla canicola, filmata nella torrida estate 2003, evoca uno scenario postbellico o le possibili conseguenze di un cambiamento climatico estremo.
Non ricorrono a rimozioni, questi artisti, non cercano facile sollievo; lì si vive come sotto un vulcano sempre pronto a esplodere. E le loro opere esprimono una profonda, drammatica, consapevolezza: una consapevolezza preziosa a chi, la storia di Israele, la vive dall’interno e rischia di perdere l’ampiezza dello sguardo, e a chi, guardandola da fuori, rischia di lasciarsi trascinare da facili stereotipi e da punti di vista preconfezionati.
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