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La Stampa Rassegna Stampa
12.06.2008 Il dizionario del "vecio parlar", di Primo Levi
un inedito presentato da Alberto Cavaglion

Testata: La Stampa
Data: 12 giugno 2008
Pagina: 34
Autore: Alberto Cavaglion - Primo Levi
Titolo: «Così parlava lo zio Oreste»

Da La STAMPA del 12 giugno 2008:

Primo Levi e Armand Lunel. Siamo nel 1975. Due scrittori s'interrogano sul gergo dei loro antenati senza sapere di avere in comune gli antenati di cui parlano. In Argon, racconto di apertura del Sistema periodico, Primo Levi trae spunto dai cognomi-toponimi dei suoi avi provenzali-piemontesizzati: Montmélian-Momigliano, Foix-Foa e altri. Levi ci offre un saggio delle sue doti di linguista e fa rivivere una lingua morta. Negli stessi giorni Armand Lunel pubblica a Parigi, per Albin Michel, Juifs du Languedoc, de la Provence et des Étas français du Pape: un saggio dove in chiave autobiografica si esamina il gergo di antenati divenuti francesi senza «sprovenzalizzarsi». I due libri escono a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro, ma i due autori non si conoscono ancora.
Armand Lunel (1892-1977) era ed è uno scrittore francese in Italia poco conosciuto. Il romanzo Nicolo-Peccavi ou l'affaire Dreyfus à Carpentras (Gallimard), con cui vince il Prix Renaudot nel 1926, non è tradotto. Saggista, autore di libretti d'opera per Darius Milhaud (altro cognome-toponimo provenzale piemontesizzato in Migliau), negli ultimi anni della vita ha operato per la salvaguardia del «judéo-comtadin», vantandosi di essere l'ultimo ebreo francese capace di parlare una specie di yiddish minore, diffuso nelle terre avignonesi, in particolar modo nel Contado Venassino (Comtat Venaissin).
Nello studiare quello che è forse il racconto più bello di Levi (Notizie su Argon, Instarlibri, 2006) avevo ipotizzato, senza prove alla mano, che fra le due opere vi fosse un nesso. Grazie a David Jessula, genero di Lunel, cui va la mia riconoscenza, ora è possibile chiarire i termini della questione.
E' Lunel a farsi avanti, il 7 novembre 1975, dopo aver letto in Argon le righe dedicate alle metamorfosi piemontesi della sua famiglia: «Il nome della cittadina di Lunel, presso le Bocche del Rodano, fra Montpellier e Nîmes, è stato tradotto nell'ebraico Jaréakh (= luna), e di qui è derivato il cognome ebreo-piemontese Jarach». La lettera dà l'avvio a una intensa corrispondenza ora conservata presso la Biblioteca Méjanes (Aix-en-Provence). Si può immaginare la gioia di Levi, quando scoprì nell'opera di questo suo alter ego la stessa ironia, lo stesso amore per i giochi linguistici (dabra davar), per i soprannomi (Abranet è il cugino provenzale di Barbabramín, criticato in Argon per i suoi focosi amori ancillari), per le ingiurie bonarie (mamzèr).
Trovato un interlocutore così affettuoso e competente, nel marzo dell'anno successivo, Levi si fa coraggio e spedisce a Lunel quattro pagine dattilografate, che qui riproduciamo. Di Argon, il lettore troverà i fondali, i costumi di scena, gli attrezzi di lavoro, qui decontestualizzati, ridotti ad asciutto lemmario. Un dizionario portatile di quello che Zanzotto chiama il vecio parlar: una lingua rustica, «lunare» e perciò sacra (v. alla voce Lassòn acòdesh).

Le pagine del dizionario:

In massima parte questi termini mi sono stati forniti da mio zio Oreste Colombo, di Venasca, morto verso il 1950, e dalla Sig.ra Nilda Jachia ved. Segre di Torino morta poco dopo.
P. L.


Aissà:
la Madonna (lett. "la donna").

Bachié, bahié: piangere. C'è nel Kaddish. "Naina 'l ben c'à bahìa". Attraverso il romanesco ha dato "baccagliare", in origine "lamentarsi".

Beemà: bestia, belva; usato nel senso di "persona malvagia"; scherzosamente anche di bambini.

Berachà (anche Abrachà): benedizione. "N'abrachà a côi gôjim c'a l'an fait ij lòsi".

Berìt: la circoncisione: per estensione il membro virile: "N'afé dël B."

Catàn: piccolo. "B. catàn".

Cavòd: lett. "gloria". "Feje 'n po''d c.", per "festeggiare qc."

Davàr: lett. "cosa, parola", ma usato nel senso di "niente". "Dabra d."; una minestra "c'a sa 'd d. shebañolàm". Ebr. "Ein D."

Dabré: parlare.

Ebreô frust: nel senso di "trasandato". Lett. "usato", "logoro".

Ganàu: ladro, mercante esoso. "Ganavié", rubare.

Ghéser: il povero. Anche " 'n por Satàn".

Ghevìr, ghivìr: lett. "il ricco", "il principe"; usato per "il mezzadro", "il contadino".

Galàch: il prete. "Gran G." o "G. gadòl": il Papa.

Khachàm: sapiente. Anche: il Rabbino.
Khaburié: mangiare. "Bôna neuit, e halômiite che 'l Satan a t'khaburia".

Khalòm: sogno. Bahalòm: "in sogno", cioè per nulla affatto. Anche: "Bahalòm balaila", lett. "in un sogno di notte".

Khaiàt: sarto. Femm.: khaiatëssa".

Khamòr: asino, ignorante. Femm.: "Khamortà".

Khanèc: la strozza. Khanichésse: impiccarsi. "C'at resta ant 'l khanèc". Anche "veleno": "Kh. ti sia".

Khaltrum, khantrum: bigotteria (ma principalmente cristiana); "un dël Kh.", un bigotto. L'ebreo bigotto è detto "bôn Judì", femm. "bôna Judìssà". Non dall'ebraico: in giudeo-mantovano esiste "khalto", che vale appunto "cristiano bigotto".
Kharisé, kharisié: ridere.

Khasìr: maiale. Femm. "khasirtà"; "khasirud" vale "porcheria".

Khassìd: uomo pio. Femm. "Khassidà".

Khavertà: serva. "Khavertùd", "servitorame".

Khavrudià: comunella, cerchia.

Khamisôsa: nel senso di "miscuglio". Propriam. è l'assortimento di frutta che si dona ai bambini al Capodanno degli alberi (15 di Shevàt) proviene appunto da "quindici", Khamissà 'assar, attraverso la pronuncia Yiddish.

Khamissidò: schiaffo; lett. "il suo quinto" (le 5 dita?).

Khen: garbo, grazia.

Lassòn acòdesh: l'ebraico (Lett. "lingua santa"): ma usato anche per designare il presente gergo. "Lasônié" vale "parlare".

Maftech: chiave. prop. Maftéach.

Mañòd: danaro. "Saròd e senssa m.", di zitella senza dote.

Makhané: gozzo.

Makhazòr: tesoro (propriam. "libro di preghiere").

Mamzér, femm. Mamzertà: malvagio, furbo (propr. bastardo).

Menôkhà: gioia; anche "festa famigliare" o "tranquillità".

Med: morto. "Medà meshunà": morte improvvisa, accidente. "'Na m.m. faita a paraqua".

Morenô: il rabbino (propr. "nostro maestro": barba M.).

Môñed: festa.
Môssau: cesso (lett. "sedile").

Nassir: ricco. "Massòd ñassiròd", le azzime dolci.

Nazazèl: il diavolo

Niròn: ricco.

Narmôniòd: castagne.

Nashamòd: le ossa (specie di tacchino): "'A scaôda fiña i N." Anche "avanzi".

Nilüf: svenimento, schifo ("A fa fiña ñilüf").

Navòn: peccato, specialm. nel senso di "occasione perduta".

Nàin: malocchio (lett. "occhio"). "Che béla masnà, senssa ñ."

Pàkhad: paura; anche: "pakhadina".

Pedaìd: uomo tardo, lumacone.
Pegherà: morte; pegarié: morire, crepare. "J'eu viagià côn 'na pegartà, viturin fermé".

Rech-Rukhòt-Rekhol-Rùach: vento, odore ecc.; "a tira 'n gran ruach e a fa sefokh".

Saròd: è propriam. il plur. di Tzarà, sventura. Un oggetto o persona di scarso valore. Anche Sarôdìn.

Savàr: collo. A rôta 'd s.

Scòla: la sinagoga. Andé a S.

Sefinà (va 'n s.): va al diavolo.

Sefokh: vomitare, scoppiare. C'è nell'Agadà.

Shamdé, shamdesse: battezzare, battezzarsi. (lett. "cancellare, distruggere").

Sicòr: ubriaco. S. mars; 'nsicôriesse côme 'n ôrs.

Sôkhié: dormire. S. 'd la quarta (allude al "4°sonno" del filugello).
Sod: egli, quello. Naina 'l s.

Sôtià: matta. Il masch. Sôté è meno usato.

Sòman: grasso (specie d'oca). "A va tut an s."

Sônà: prostituta.

Sôà: escremento (anche come insulto).

Tafùs: prigione.

Tàkhad: il sedere.

Tônevà: la chiesa. "Andé 'n t.".

Pôñèl, pôñaltà: contadino, villano. "'Na stofa c'a fa p.", vistosa.

Khalaviòd: i seni.

Besim: testicoli.

Lakhtì: fuggire: "lakhtìs për sôta" (=fuggi per vie traverse). Anche riporre, nascondere". "Lakhtìs 'l maftèch", nascondi la chiave.

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