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Il Foglio Rassegna Stampa
12.06.2008 La rivoluzione militare di Rumsfeld funziona
un articolo di Christian Rocca

Testata: Il Foglio
Data: 12 giugno 2008
Pagina: 1
Autore: Christian Rocca
Titolo: «Rumsfeld aveva ragione»

Da Il FOGLIO del 12 giugno 2008:

John McCain e Barack Obama non possono essere considerati in nessun modo fan di Donald Rumsfeld, definito “lo spietato piccolo bastardo” nientemeno che da Richard Nixon e poi diventato nel 2000 il gran capo del Pentagono con George W. Bush. Obama, come tutti i democratici, forse anche più degli altri visto che era contrario alla guerra, considera “Rummy” uno dei più disastrosi segretari alla Difesa di sempre, insieme con il kennediano Robert McNamara che aveva elaborato le strategie belliche in Vietnam. Il repubblicano McCain, ancora ieri, ha ribadito di aver criticato fin dall’inizio la strategia rumsfeldiana in Iraq e di aver chiesto più volte un cambio netto a Baghdad, il cosidetto “surge” del generale David Petraeus, poi adottato con successo da Bush e dal successore di Rumsfeld, Bob Gates.
Chiunque vincerà le elezioni presidenziali del 4 novembre, difficilmente riscatterà l’immagine del settantacinquenne Rumsfeld, malgrado sia stato  l’unico segretario alla Difesa ad aver servito il Pentagono per due mandati non consecutivi, il più giovane di sempre, a 43 anni nell’Amministrazione Ford, e il più anziano con Bush.
Eppure c’è chi comincia a riabilitare Rumsfeld. Ha cominciato il suo ex sottosegretario Douglas Feith con uno straordinario libro-resoconto degli anni post-11 settembre al Pentagono, “War and Decision”, che ovviamente è di parte, ma che in realtà si basa sui documenti ufficiali che poi Feith ha postato in un sito internet in modo che chiunque possa controllare di persona. Questo racconto appassionante dall’interno del Pentagono smonta i più logori luoghi comuni su Rumsfeld e il suo gruppo di analisti e consiglieri, al punto che i grandi giornali liberal fanno fatica a recensire il libro perché dovrebbero mettere in discussione anni di editoriali e commenti basati sul pregiudizio.
La quieta riabilitazione di Rumsfeld, però, comincia a trovare spazio proprio sui giornali liberal. L’esperto di sicurezza nazionale del Washington Post, William Arkin, ha sintetizzato il diffuso sentimento antiRummy al Pentagono e altrove in uno slogan, “se Rumsfeld era a favore, noi siamo contrari”, da applicare a qualsiasi idea, progetto, strategia elaborata dall’ex segretario. Ma, ha scritto Arkin, la sua idea di utilizzare le forze operative speciali nella guerra al terrorismo, invece che l’esercito regolare, era giusta perché questa è una guerra che va combattuta in modo silenzioso e con una presenza militare leggera. Insomma, sia pure post mortem, si tratta di un endorsement della dottrina Rumsfeld.
Ma c’è di più. Il più coerente tentativo di rileggere l’operato di Rumsfeld è di Robert Kaplan, un esperto militare di scuola realista, avversario ideologico dei neoconservatori, contrario ai progetti di democratizzazione del medio oriente e sostenitore, con Henry Kissinger, che non ci sia niente di cinico e di immorale nell’appoggiare i regimi autoritari per paura che possano essere sostituiti da governi peggiori. Kaplan, sul numero di luglio/agosto del mensile liberal Atlantic Monthly, ha scritto un lungo articolo dal titolo “Le cose giuste di Rumsfeld”, un resoconto dettagliato dei suoi anni alla guida del Pentagono.
Kaplan ha discusso di Rumsfeld con una trentina di esperti di sicurezza nazionale, repubblicani e democratici, ed è arrivato alla conclusione che Rumsfeld è riuscito a rivoluzionare l’esercito e la burocrazia del Pentagono in modo positivo, adattandoli ai tempi e alle nuove sfide e consentendo al prossimo presidente degli Stati Uniti di disporre di un apparato bellico moderno e riformato.
Kaplan ovviamente non nega la lunga lista di errori commessi da Rumsfeld, anche se spiega siano di natura diversa rispetto a quelli che gli sono spesso imputati. La prima accusa è di aver agito in modo ideologico, contro le indicazioni degli esperti militari e di aver voluto gestire la guerra con eccessivo controllo sui dettagli. Secondo Kaplan, la colpa di Rumsfeld è opposta: “Non si è curato abbastanza dei dettagli”, anzi si è affidato alle indicazioni dei generali e si è limitato ad elaborare le strategie. “Durante gli anni clintoniani – scrive Kaplan – i militari hanno guadagnato troppo potere rispetto ai funzionari civili, a causa dell’inesperienza militare del presidente. Rumsfeld ha spostato la dinamica troppo in là nell’altra direzione”, ma l’idea che Rumsfeld abbia sbagliato tutto, come si è detto in questi anni”, non è corretta. “Grazie alla sua lunga gestione e al suo personale dinamismo – scrive Kaplan – Rumsfeld ha avuto un impatto che andrà ben oltre l’Iraq nel modellare le azioni delle prossime Amministrazioni”. Gli anni di Rumsfeld al Pentagono saranno ricordati per una serie di progetti, programmi e sistemi di gestione di budget che hanno rivoluzionato la struttura e la filosofia d’azione dell’apparato militare americano.
Rumsfeld, dice Kaplan, ancora prima dell’11 settembre era ossessionato dall’incertezza, dall’idea che l’America potesse essere colta da una catastrofica sorpresa. Questa ossessione l’ha portato a difendere l’idea di uno scudo spaziale e a mettere in discussione, così come aveva fatto la segretaria di Stato di Bill Clinton, Madeleine Albright, la dottrina di Colin Powell sull’uso dell’esercito soltanto in casi rari e estremi. “Nella visione di Rumsfeld, le truppe americane in una parte del mondo avrebbero dovuto essere pronte per essere inviate all’istante da un’altra parte per combattere o portare aiuti. Da qui la sua fissazione con il cambiamento di atteggiamento globale dell’esercito, per trasformarlo in una forza combattente. Le fondamenta intellettuali di queste transizioni sono cominciate durante gli anni di Bill Clinton, ma Rumsfeld è quello che le ha realizzate”.
Gli esperti consultati da Kaplan sostengono che Rumsfeld abbia fatto bene a ridurre i contingenti americani dall’Europa per ampliare la presenza non permanente in Africa, medio oriente, America latina. L’idea di Rumsfeld era quella di essere presenti nelle regioni più calde del pianeta con un peso leggero, senza costruire le tante “piccole Americhe” create in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Questa presenza leggera, “senza mogli, senza bambini, senza ambulatori, senza cani, senza chiese” ha facilitato gli accordi bilaterali con gli stati ospitanti, al punto che dalla fine della Guerra fredda alla fine della gestione Rumsfeld i trattati bilaterali sono aumentati da 45 a 90, mentre l’aviazione militare ha firmato contratti di sosta e rifornimento con venti paesi africani.
Un approccio simile è stato seguito in estremo oriente, dove Rumsfeld è riuscito a convincere i sudcoreani a non ridurre il loro esercito e di prendersi carico della propria difesa dalla Corea del nord. In questo modo, il Pentagono è riuscito a diminuire la presenza umana americana nell’area, a rafforzare il contingente aereo e navale, ad allontanarla dal fronte con la Corea del nord, pur riservandosi il potere di supervisione delle operazioni militari in caso di guerra. Rumsfeld ha anche rivitalizzato le relazioni militari con il Giappone, convincendo Tokyo a spendere miliardi di dollari nella propria difesa e a ospitare la prima portaerei con bombardieri nucleari.
Un altro successo di Rumsfeld sottostimato dai suoi detrattori è quello centrale nella formazione della nuova strategia americana in Asia, ovvero il piano di dispiegamento delle portaerei nel Pacifico, piuttosto che intorno alle coste americane. Rumsfeld ha concluso accordi con le Filippine, con Singapore, con l’India, regalando al prossimo presidente degli Stati Uniti una nuova costellazione di basi mondiali più flessibili e austere, controllate da una struttura centrale e non appesantite da problemi politici con i governi alleati. Secondo Rumsfeld, questa quieta rivoluzione strategica consentirà agli Stati Uniti di reagire in modo spedito alle emergenze di ogni tipo, di continuare in modo più efficace la guerra al terrorismo e di controllare l’espansione militare senza necessariamente provocare il governo di Pechino. Gli esperti di destra e di sinistra sono d’accordo: “Questi sono aspetti dell’eredità di Rumsfeld – scrive Kaplan – che saranno adattati alle proprie esigenze da qualsiasi Amministrazione, invece che revocati istantaneamente”.
Secondo Kaplan, “Rumsfeld ha spinto parecchio per uno dei più importanti cambiamenti nell’organizzazione di un esercito dai tempi di Napoleone, spostando l’unità di comando dalla divisione alla brigata da combattimento”, cioè affidando a squadre di soldati meno numerose e meno burocratiche, più facilmente adattabili alle diverse situazioni di un mondo anarchico e non convenzionale.
La rivoluzione di Rumsfeld, secondo Kaplan, non è stata soltanto burocratica, ma ha inciso sui nuovi modi di combattimento, in particolare con il raddoppio del budget alle forze speciali. Alla fine, con il documento strategico quadriennale del 2006, si è pure convinto dell’importanza delle operazioni di stabilizzazione e di nation building. Il suo unico, vero e grande errore.

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