Il quotidiano comunista ineggia alla Gaza di Hamas e alla "resistenza" contro Israele
Testata: Il Manifesto Data: 11 giugno 2008 Pagina: 11 Autore: Michele Giorgio Titolo: «Stanchi ma orgogliosi, Gaza non si arrende»
Reportage di Michele Giorgio "nel regno di Hamas". "Stanchi ma orgogliosi, Gaza non si arrende", è il titolo scelto dal quotidiano comunista per ineggiare alla "resistenza" contro Israele.
Giorgio non è sfiorato dal dubbio che la scelta di Hamas di proseguire la guerra con Israele sia criminale, anche nei confronti della popolazione palestinese. Nè si chiede se a creare la dipendenza della popolazione palestinese dal gruppo islamista non siano stati gli attacchi che questo ha condotto contro valichi, terminal per il rifornimento di carburante, linee elettriche e non l'"embargo" israeliano.
Ecco il testo:
Era esattamente un anno fa quando l'opinionista sloveno Ervin Hladnik, appena giunto a Gaza city, apprese che nella notte uomini armati avevano lanciato un giovane di 26 anni, Husam Abu Qnes, simpatizzante ad Hamas, da un edificio di venti piani, in risposta al lancio da una finestra del palazzo Jafari di un agente della sicurezza presidenziale. «Questi sono segni inequivocabili di una guerra civile» commentò Hladnik, che la guerra tra «fratelli» l'aveva ben conosciuta e seguita nei Balcani. «Quando qualcuno lancia dalla finestra uno della sua città, del suo quartiere, vuol dire che non riconosce più l'altro come un essere umano», aggiunse mentre già riecheggiavano le raffiche di mitra. Aveva ragione. Non lo aveva capito invece la gente di Gaza e le tante persone convinte che il regolamento di conti sarebbe stato evitato. I capi politici e militari di Hamas e di Fatah al contrario sapevano bene cosa stava accadendo. A cominciare da Mohammed Dahlan, «uomo forte» di Fatah, nemico giurato di Hamas, che da mesi faceva il possibile per ostacolare - con l'aiuto degli Stati Uniti - il Governo di unità nazionale presieduto da Ismail Haniyeh, nato dagli accordi della Mecca. Dahlan però non era più a Gaza quando la Tanfisiya, la neonata polizia di Hamas, si lanciò all'attacco delle sedi dei servizi di sicurezza e della guardia presidenziale. Era già al sicuro da giorni, assieme a diversi generali e colonnelli che sapevano bene che Hamas stava per reagire. Lasciarono da soli migliaia di agenti e poliziotti stanchi e demotivati che si arresero subito, spesso senza resistere. Il 14 giugno, a sera, era tutto finito, ma il bagno di sangue era ugualmente avvenuto. Furono quasi 150 i morti, centinaia i feriti. Hamas aveva il potere ma cominciò subito a fare i conti con un isolamento ancora più duro di quello scattato dopo la sua vittoria elettorale del 2006. «Com'è Gaza un anno dopo? Meglio e peggio allo stesso tempo - dice Wassim Abu Samadan, un impiegato di Gaza city -: da un lato c'è più organizzazione e meno corruzione, dall'altro siamo prigionieri e mancano tante cose, soprattutto la benzina, a causa di Israele». Wassim riflette l'opinione di tanti abitanti di Gaza. Afferma di non essere «invidioso» della vita in Cisgiordania, sotto il controllo del governo «d'emergenza» di Salam Fayyad. «Lì ci sono soldi, c'è più lavoro ma qui siamo più uniti, la disgrazia ci ha reso più forti. Ma alla fine torneremo tutti insieme», auspica, precisando di essere un sostenitore di Fatah. Parlando con la gente di Gaza emerge che il movimento islamico gode ancora di parecchio sostegno, anche se non pochi si dicono «stanchi». Come Amr, un commerciante. «La diminuzione del crimine è importante, ma la vita è fatta di tante altre cose - spiega - forse Hamas dovrebbe adottare una linea diversa e pensare un po' più a noi, comuni cittadini». Wafa, una studentessa di Beit Hanun, invece è convinta che «le cose vanno bene così». La colpa, dice, «è solo di Abu Mazen e di Israele. Hamas si è difeso e ora governa come meglio può, nonostante l'embargo». È paradossale parlare di una Gaza «più tranquilla» mentre il governo Olmert minaccia una invasione, i raid aerei israeliani non cessano e i razzi artigianali Qassam volano verso il Neghev. Eppure questo è il giudizio di buona parte dei palestinesi che vivono nella Striscia. L'embargo israeliano ha reso la popolazione più dipendente da Hamas - che ora distribuisce carburante e merci accumulate in precedenza - mentre Abu Mazen e l'Anp sono ininfluenti e la decisione del presidente palestinese di riaprire il dialogo con il movimento islamico, rinunciando a molte condizioni poste un anno fa, appare un riconoscimento degli islamisti. «Siamo forti, anche più di prima e non faremo alcun passo indietro», dichiara il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri sottolineando che la popolazione continua a rispettare le direttive del suo movimento sia in protesta contro Israele che nella vita sociale. «Abbiamo messo un freno alla pornografia, al traffico di droga che corrompe i giovani e la gente paga per i servizi pubblici. I comportamenti ora sono più conformi ai valori del nostro popolo», aggiunge orgoglioso Abu Zuhri, negando però che l'intenzione di Hamas sia quella di costituire un «Emirato islamico». A Gaza però non si muore solo per la resistenza all'occupazione e per i raid israeliani. Sono aumentati, e di molto, i delitti d'onore a danno di giovani donne e si perde la vita per malattie che invece potrebbero essere curate fuori dalla Striscia se non ci fosse il blocco israelo-egiziano dei valichi. «Quelli di Hamas hanno molte ragioni e sono onesti rispetto all'Anp ma, allo stesso tempo, devono capire che il mondo è una giungla dove purtroppo domina la legge del più forte», commenta Safwat Kahlut, un giornalista, «non vogliono sporcarsi le mani, quindi dovrebbero anche avere il buon senso di mettersi da parte e facilitare l'avvio di una nuova fase, perché la popolazione è stanca, ha bisogno di respirare, non è possibile proseguire così all'infinito». Ghazi Hamad, un consigliere di Ismail Haniyeh, esclude un'uscita di scena di Hamas. «La soluzione sta nel dialogo - afferma Hamad - quando c'è la volontà delle parti si raggiungono sempre buoni risultati. Fatah e Hamas non possono rimanere separati, l'unità nazionale è l'obiettivo che desidera la nostra gente, è l'unica via d'uscita».
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