Ritratti di politici Golda Meir a confronto con Hillary Clinton, il magnate russo-israeliano Arcadi Gaydamak
Testata: Il Foglio Data: 11 giugno 2008 Pagina: 3 Autore: Amy Rosenthal - un giornalista Titolo: «Golda, l'anti-Hillary - Così a Gerusalemme il tycoon russo Gaydamak s’atteggia a leader antipolitico»
Intervistata da Amy Rosenthal per il FOGLIO dell'11 giugno 2008, la giornalista Elinor Burkett, biografa di Golda Meir, traccia un confronto tra l'ex premier israeliano e Hillary Clinton.
Ecco il testo, da pagina 3 dell'inserto:
Hillary Clinton ha cambiato i principi cui ispirarsi almeno cinquanta volte, Golda Meir non ha mai mutato la propria opinione su nulla per tutta la vita”. Elinor Burkett, biografa dell’ex premier israeliano (“Golda”, HarperCollins 2008) e giornalista in passato più volte in odore di Pulitzer, ha studiato la vita di Golda proprio mentre Hillary cominciava a costruire la sua campagna elettorale per la Casa Bianca (ora già finita) e dice al Foglio che si è molto divertita a fare confronti tra queste due donne in politica. Il suo giudizio è perentorio: Hillary e Golda non potrebbero essere più diverse. “Ho visto due generi di donne diventare capi di stato – spiega Burkett – quelle che lo sono diventate con le loro uniche forze, e il cui cognome non valeva niente, come Golda Meir, Margaret Thatcher e Angela Merkel, e quelle che non lo sarebbero mai diventate se non avessero avuto un certo cognome, come Hillary Clinton. Questi sono due generi di donne molto diverse e metterle tutte nella stessa categoria non è corretto. Ciò che le differenzia è la loro percezione del diritto alla leadership politica. Queste donne fanno campagna elettorale e governano in modo profondamente diverso”. Burkett va oltre, azzarda persino che Golda non avrebbe avuto una grande simpatia per Hillary. Non sarebbero andate d’accordo, “Golda detestava le persone che mutavano i propri principi, era una donna politica di vecchio stampo, e poteva esserlo perché il sistema di governo israeliano, fondato sulla leadership del primo ministro, non la costringeva a cercare il voto popolare. Golda se n’è sempre infischiata della popolarità. Anzi, aveva un profondo disprezzo per i politici populisti. Non aveva né fiducia né pazienza nei confronti di chi manteneva un atteggiamento compiacente in politica. Hillary Clinton è l’autentica anti Golda Meir”. C’è da dire che l’ex premier israeliano non aveva grande simpatia per le altre donne in generale, non ne ha mai nominate per cariche governative. “Non era sicuramente una femminista, e lo diceva con orgoglio”, dice Burkett. La donna che ha condotto la politica israeliana dal 1969 al 1974 pensava che il femminismo fosse una sciocchezza, che il Movimento delle donne fosse autoindulgente e che ci fossero questioni ben più importanti di cui occuparsi. “C’era una parte di Golda profondamente di sinistra e il Movimento delle donne era troppo individualista per suscitare il suo più remoto interesse”. Ne parlò a lungo con una donna che, a differenza delle altre, Golda adorava: Oriana Fallaci. “Capitò un fatto strano con lei – ricorda Burkett – Poco dopo l’intervista, gli appunti che Oriana aveva preso furono rubati. Quando Golda lo venne a sapere, le telefonò: ‘Torna qua e ti rilascio un’altra intervista’. Golda non faceva mai cose di questo genere. Credo che si identificasse in Oriana, cosa inconsueta dato il suo rapporto con le donne e la riluttanza con cui aveva accettato il primo incontro. Ma Oriana era un’intervistatrice estremamente abile e sapeva come ottenere il massimo da Golda. E ho il sospetto che Golda ammirasse il suo coraggio e la sua indipendenza. Avevano molte cose in comune: sebbene Oriana fosse molto più giovane, entrambe erano capaci di lasciare tutto in nome di qualcosa di più grande”. Per Golda quel qualcosa di più grande era la ragion di stato, e la lotta al terrorismo. Quando ci fu il primo attacco terroristico – gli attentati agli uffici di El Al e ai consolati israeliani, prima di quello alle Olimpiadi di Monaco, nel 1972 – Golda Meir comprese che si stavano piantando le radici di un nuovo terrorismo e che la comunità internazionale non aveva una strategia per affrontarlo – “anzi, lo incoraggiava cedendo ai suoi ricatti”, spiega Burkett. Tutti ritennero esagerate le parole di Golda: “Ascoltatemi bene: non vi rendete conto che, se non lo fermate adesso, il terrorismo si diffonderà come una piaga in tutto il mondo?”. Pochi presero sul serio quell’avvertimento. “Il mondo le deve delle scuse per averla trattata come una sciocca vecchietta”. Anche Hillary, nonostante tutto, ha fama di essere una donna forte e determinata. Eppure non è ruscita a imporsi nelle primarie del Partito democratico americano. Ha più volte usato la carta del “mi attaccate perché sono donna”, ma oggi molti commentatori – spesso ostili verso il clintonismo, va detto – sostengono che il “sexism” non c’entra nulla: Barack Obama ha vinto perché ha un messaggio più convincente. Burkett spiega che se, nel 1969, ci fossero state delle elezioni presidenziali in Israele e il premier fosse stato eletto direttamente, anche Golda avrebbe perso. “Divenne primo ministro soltanto perché lo decisero i capi del partito, paralizzati dal dilemma di chi scegliere tra Moshe Dayan, che detestavano ma che era amato dal popolo, o Yigal Allon, che era da loro apprezzato ma non dal popolo. Si è trattato perciò di una decisione di convenienza politica”. In più Golda non era telegenica, ci scherzava sopra: “Se volete la bellezza, non rivolgetevi a me”. “Non era certo bella, ma aveva qualche vanità: le unghie e i capelli. Aveva le unghie sempre perfettamente curate e si spazzolava i capelli ogni sera – ricorda Burkett – Ma la mancanza di bellezza non la preoccupava affatto. Era piena di uomini. Diceva di sé: ‘Non sono mai stata una suora’”. Gli uomini ammiravano questa donna forte, decisa e indipendente, “ma volevano domarla” oppure, come suo marito Morris, volevano “più attenzione. Lei invece preferiva gli incontri segreti con il Mossad, non ha mai fatto finta di adattarsi alla vita di famiglia”. Secondo Burkett, non avrebbe dovuto sposarsi e avere figli una donna come Golda che non voleva rinunciare a nulla del suo lavoro. In proposito, la biografa conferma una voce che è circolata spesso. “Ho scoperto che ebbe un aborto dalla corrispondenza di Golda con sua sorella Sheyna. In una di queste lettere, Sheyna scrive: ‘Non ci posso credere che abbiate fatto una cosa simile. Proprio tu che odi così tanto gli ospedali. Tu e Morris sareste stati dei genitori perfetti’. Insomma, non c’è dubbio che ebbe un aborto. Aveva deciso che si sarebbe trasferita in Palestina e se avesse avuto un figlio la cosa poteva diventare impossibile; ma Golda non aveva alcuna intenzione di rinunciare al suo sogno: aveva preso la propria decisione e nulla poteva più fermarla”. I rapporti personali dell’ex premier erano spesso complicati. Detestava Shimon Peres, oggi presidente d’Israele, “per parecchie ragioni: una risale a quando Ben Gurion permetteva che Peres facesse di fatto il ministro degli Esteri, mentre ufficialmente era lei a rivestire quella carica. In quel periodo ci fu un particolare incidente quando Golda cercò di negoziare un acquisto di armi dai francesi e poi scoprì che Peres era già stato in Francia e aveva concluso il contratto. Golda si infuriò perché Peres non l’aveva informata. Peres era un tecnocrate e Golda non poteva sopportare i tecnocrati, li considerava inaffidabili”. Anche con l’allora ministro della Difesa le relazioni non erano un granché. Anzi. “Moshe Dayan era davvero un arrogante figlio di buona donna – dice Burkett – Ma Golda ebbe anche una specie di flirt con lui. Tutte le persone che ho intervistato me ne hanno parlato. Sebbene Golda provasse repulsione per Dayan, in qualche modo ne era anche attratta. C’era in lui qualcosa che corrispondeva al suo sogno dell’ebreo impavido e indipendente che non ha paura di nulla. Una parte di lei lo ammirava e un’altra parte lo detestava”. Sopra a tutto, sopra al rapporto difficile con le donne e a quello complicato con gli uomini, c’era la ragion di stato, la sopravvivenza di Israele, l’unica vera battaglia da combattere. Per Golda la prospettiva di uno stato palestinese era “irrealistica”. Allora, molti la pensavano così. Prima degli anni Settanta, anzi, “quasi tutti erano convinti che la soluzione più logica fosse quella di una Giordania palestinese”, dice Burkett. Allora pochi parlavano di palestinesi, i popoli di cui si parlava erano altri: egiziani, siriani, libanesi. Golda si oppose con tutte le sue forze alla politica degli insediamenti. Non voleva la Cisgiordania. “Aveva già capito la situazione demografica – spiega la sua biografa – Voleva anzi sbarazzarsi della Cisgiordania il prima possibile. Ma rimase intrappolata tra Menachem Begin Begin e chi voleva la Grande Israele, compresi Dayan e gli ebrei ortodossi. E il suo stesso partito non era in grado di decidere cosa volesse. Comunque, Golda era del tutto contraria a uno stato palestinese in Cisgiordania. Per lei si trattava soltanto di un sotterfugio. Ripeteva a tutti che non era una cosa fattibile e che ‘il solo scopo di questo stato è di servire come testa di ponte contro Israele’”. Oggi, quella posizione non appare così assurda. Ma allora Golda appariva – e molti storici l’hanno dipinta così – come la più cocciuta e ostinata nemica di ogni accordo di pace, in particolare con il presidente dell’Egitto, Anwar Sadat, prima e dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973. Burkett rivede la questione, dice che Sadat in quel momento non era ancora pronto a fare la pace con Israele: “Ecco è facile dire: ‘Sadat poi ha fatto la pace e l’avrebbe fatta anche prima se Golda Meir gli avesse dato ascolto’. Sadat questo non lo disse mai, e anche sua moglie sostiene la stessa cosa: è convinta che Sadat non avrebbe potuto concludere la pace prima. Aveva bisogno del successo nella guerra del 1973 per disporre di una sufficiente credibilità all’interno del mondo arabo e fare ciò che appariva inconcepibile. Perciò dire che Golda Meir perse l’opportunità di fare pace con Sadat è un’assurdità”. Un altro rapporto difficile Golda lo ebbe con Henry Kissinger, ex segretario di stato americano. Kissinger “le faceva fare cose che lei non voleva”, dice Burkett, e ovviamente a Golda non poteva piacere una persona così. Però si fidava di lui sulla questione di Israele. Ci si domanda spesso se Golda si fidasse di lui perché era ebreo oppure perché sapeva che Kissinger riteneva importante la sicurezza di Israele contro i sovietici nel contesto della Guerra fredda. “Sono vere entrambe le ipotesi – conclude la biografa – Kissinger dice che Golda lo trattava sempre come se fosse un nipote cattivo, ma io penso che, soprattutto dopo la guerra dello Yom Kippur, Golda fosse così depressa e tormentata dai sensi di colpa per non avere saputo difendere il paese che doveva per forza fidarsi di qualcuno, e questo qualcuno era Kissinger”. Il ruolo di Golda Meir nel consolidamento dell’alleanza tra Stati Uniti e Israeleè cruciale. “E’ proprio l’alleanza di Golda – spiega Burkett – E’ stata l’opera di Golda Meir e di Richard Nixon. Il primo premier israeliano a essere invitato a una cena di stato fu Levi Eshkol, invitato dal presidente Lyndon B. Johnson, ma si trattò di un episodio senza risonanza. Quando Golda Meir partecipò a una cena di stato fu un evento straordinario. Lei conosceva tutti i membri del Congresso. Ben Gurion e i suoi seguaci pensavano che la sicurezza di Israele sarebbe stata garantita nel modo più efficace dal mantenimento della neutralità nella Guerra fredda. Golda era invece convinta che il futuro di Israele sarebbe dipeso dal suo rapporto con gli Stati Uniti”. Il carattere forte, le idee chiare, le migliaia di sigarette fumate, i rapporti complicati hanno reso Golda uno dei personaggi più popolari della storia di Israele. Una star, secondo la sua biografa. E’ il simbolo di una certa gioventù, di un certo idealismo, di un periodo in cui, sul piano politico, emotivo e morale, era più facile amare Israele. C’è tanta nostalgia. “In un’epoca in cui tutti i politici del mondo si abbandonano spesso alla ruffianeria, non si può fare a meno di guardare con simpatia e ammirazione a questa donna tenace e schietta, che diceva quello che pensava. Per i nostri tempi, questa è davvero come una rinfrescante boccata d’aria. C’è forse sul palcoscenico mondiale di oggi un’oratrice altrettanto sincera e diretta? Aveva la capacità di fare leva sull’idealismo della gente e di farla sentire meglio di come stava in realtà”. Hillary no, questa capacità non è riuscita a tirarla fuori. L’idealismo è un affare tutto obamiano.
Il FOGLIO pubblica anche un ritratto di Arcadi Gaydamak, miliardario e politico israeliano:
L’antipolitica in Israele si chiama Arcadi Gaydamak. Il magnate russo-israeliano, patron della squadra di calcio del Beitar Jerusalem, passaporto israeliano, canadese, francese e angolano, l’uomo che vuole essere il prossimo sindaco di Gerusalemme, in questi giorni ha segnato punti e incassato sconfitte. La Knesset ha approvato la creazione di un mini gruppo parlamentare formato da tre deputati del Partito dei pensionati. Il nuovo movimento, Justice for the Old, voleva dichiararsi parte del Social Justice Party, gruppo di Gaydamak nato nel febbraio 2007, ma non gli è stato permesso. Soltanto alla terza sessione di discussioni i deputati hanno approvato lo scisma che consegna comunque, per influenza politica, tre seggi al ricco uomo d’affari. “Chi ha paura di Gaydamak?”, è il titolo di un servizio televisivo di Channel 2 in cui il tycoon ha minacciato di far cacciare il capo della polizia, il generale Yohanan Danino. Lo stesso giorno in cui andava in onda il programma, Gaydamak è stato interrogato per una questione di riciclaggio di denaro. “Non mi dispiace condividere i titoli dei giornali con il primo ministro – al centro di un’inchiesta per corruzione – Il pubblico sa esattamente chi sono”, ha detto l’oligarca, che si fida del teorema: “La cattiva pubblicità è comunque pubblicità”. E’ comparso con il quotidiano in questione in mano davanti alle telecamere, completo blu elettrico. Il suo è un viso particolare, difficile da dimenticare: gli occhi a fessura, i capelli biondo cenere, non c’è fotografia in cui non appaia in una smorfia. Arcadi Gaydamak è nato a Mosca negli anni Cinquanta, è stato tra i primi ebrei russi a lasciare l’Unione sovietica per Israele, a 20 anni. Si è imbarcato per lavoro su un cargo con destinazione la Francia, dove si è fermato e da giardiniere è diventato il capo di una società di traduzioni commerciali dal francese al russo e viceversa che si è in pochi anni estesa anche al Canada. Con la caduta dell’Urss ha visto un mondo d’affari aprirsi in una terra senza leggi e confini. Dalla Francia se n’è andato quando è stato emesso un mandato di cattura a suo nome per traffico d’armi in Angola ed evasione fiscale. Israele rifiuta d’estradarlo. Oggi, presentandosi come uomo d’affari, cerca una via in politica brandendo le insegne dell’antipolitica. “Combina assieme due realtà – dice al Foglio l’esperto di politica israeliana, il professor Shlomo Avineri – E’ uno degli oligarchi russi diventati ricchi sotto il regime di Boris Elstin. Ha acquistato una grande influenza a Mosca sfruttando un’economia in espansione, s’è infilato nei vuoti della mancanza di stato”. Spiega Avineri che c’è vuoto anche in Israele, a tempi alterni, e Gaydamak sa sempre sfruttarlo: durante la guerra tra Hezbollah e Tsahal, nel 2006, ha finanziato con i propri soldi una tendopoli a sud di Tel Aviv per gli sfollati del nord in fuga dai razzi katiusha del Partito di Dio. Pochi mesi dopo, ha pagato una settimana d’albergo sulle spiagge di Eilat, Mar Rosso, a parte degli abitanti di Sderot, cittadina del sud sotto il tiro dei Qassam palestinesi lanciati dalla Striscia di Gaza. Oggi la politica è congelata in attesa di un’annunciata crisi di governo che dipende dalle sorti dell’inchiesta sul premier Ehud Olmert. Editoriali di disgusto contro il mondo politico e la corruzione riempiono i giornali e si aprono le danze nell’era dell’antipolitica. Gaydamak ci prova, anche se i dati in possesso dell’elettorato sul suo passato sono molti e non rilassanti. “E’ il primo personaggio israeliano che arriva alla politica dall’attività economica – dice Avineri – Tutti gli altri leader provengono da strutture politiche. Ha fatto molti soldi in condizioni poco chiare e a volte problematiche”. La polizia lo ha interrogato settimana scorsa per un’ora e un quarto. Lui si definisce “perseguitato” dalle forze dell’ordine e dai parlamentari che avrebbero secondo lui discusso ben tre volte la scissione del Partito dei pensionati per timore della sua influenza in Parlamento. “La questione permette ai politici senza alcuna ideologia di rendere l’anti Gaydamak un’alternativa all’ideologia”, ha detto. Il russo, che nonostante parli poco e male l’ebraico usa molto i mass media, è attento a non presentarsi mai come politico bensì come uomo d’affari, fondatore di un partito con obiettivi socio-economici, rivolto ai nuovi immigrati e alle classi abbienti, candidato a sindaco di Gerusalemme non con un’agenda politica. Ha annunciato: “A differenza dei politici non ho cambiato idea: ho detto che sarò sindaco di Gerusalemme e sarò sindaco di Gerusalemme”. Ritiene che ci sia un complotto per tenerlo lontano dai banchi della Knesset. Accanto ai sospetti di riciclaggio, aleggiano altre accuse: nel 1999, Gaydamak investe nell’industria chimico- metallurgica Tsellinnoye, in Kazakistan, scrivono i quotidiani israeliani: produce materiale chimico. Ai tempi dei sovietici, produceva l’uranio arricchito per il programma nucleare di Mosca e i detrattori del ricco uomo d’affari dicono che nulla sia cambiato da allora. Gaydamak nega e dice che si tratta di una fabbrica di fertilizzanti. Scrive il 23 maggio la France Press, in occasione della visita del presidente francese Nicolas Sarkozy in Angola, che l’ex ministro dell’Interno francese Charles Pasqua e il figlio dell’ex leader François Mitterrand, Jean-Christophe, sono accusati di aver accettato “pagamenti illeciti da due uomini d’affari, Pierre Falcone e Arcadi Gaydamak, per vendite in Angola che includono navi da guerra, elicotteri, carri armati e munizioni dal 1993 al 2000”. Nonostante tutto, dice Shlomo Avieri, esiste una base di sostegno all’oligarca: pesca negli ambienti più popolari, nel malcontento delle cittadine di recente immigrazione come Sderot, cittò che si sente dimenticata dal governo sotto i razzi di Hamas. Pesca anche in quel sostrato operaio che un tempo votava la destra del Likud ma che le riforme economiche dello stesso leader della destra, Benjamin Netanyahu, hanno indebolito. Ha il problema del tempo: se le elezioni sono in autunno, potrebbe essere troppo presto per preparare un assalto efficace dell’antipolitica.
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