I bambini reclutati come terroristi suicidi un articolo di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 11 giugno 2008 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Il paradiso non può attendere»
Da pagina 1 dell'inserto del FOGLIO dell'11 giugno 2008:
Non ha fatto in tempo a detonare la bomba che portava addosso. Shakirullah Yasin Ali è un ragazzino dall’aspetto fragile, timido, sottomesso, ha quattordici anni ed è stato arrestato mentre stava per portare a termine un attentato suicida contro i soldati inglesi in Afghanistan. Gli avevano detto di restare alzato durante la notte precedente e di persistere nell’invocazione alla vittoria. I versetti del Corano doveva recitarli con le mani a coppa e di sfregarli sul proprio corpo in modo che il loro potere potesse essere, letteralmente, incorporato. Poi doveva cingersi per la guerra seguendo il modello stabilito dai primi musulmani. Il quotidiano inglese The Independent gli ha dedicato la copertina. “Coloro che mi hanno educato mi dicevano che se avessi creduto in Dio avrei dovuto fare il mio dovere combattendo gli stranieri. Mi dicevano che Dio mi avrebbe protetto quando fosse stato il momento”. E’ stato un bambino-martire come Shakirullah a uccidere tre soldati inglesi domenica scorsa. “Tutto ciò che so è che i mullah mi dicevano che gli inglesi e gli americani erano nemici di Dio”. Suo padre è un contadino del villaggio di Tandola. Quando ha finito gli studi nella madrassa, i mullah hanno detto a Shakirullah che era il momento di servire Dio. “Gli dissi che volevo prima vedere mio padre e mia madre, ma non ho potuto. Il mullah Saleb mi ha detto che per essere un buon musulmano dovevo fare il mio dovere. Un uomo che chiamavano ‘il Dottore’ mi ha portato due valigie di esplosivo”. I servizi segreti pachistani dichiarano che al Qaida ha organizzato un campo di addestramento per soli bambini. “E’ come una fattoria per aspiranti suicidi di nove e dodici anni” ha detto il generale Tariq Khan. Si chiamano “Ragazzi del Paradiso” e formano la nuova cellula di al Qaida in Iraq, ne possono far parte soltanto i ragazzi che hanno meno di sedici anni. A denunciarne l’esistenza per primo è stato il capo dei “Comitati del Risveglio” di Taji, Sayd Aziz Salman, intervistato dal giornale arabo al Hayat. Settimane fa al Qaida ha realizzato e diffuso un video che, per la prima volta nella sua storia, mostra l’addestramento al jihad di bambini di età compresa tra i dieci e i dodici anni. Il filmato è stato diffuso dal al Arabiya. Al grido di “Allah è grande”, i giovanissimi aspiranti kamikaze vengono ripresi a volto coperto e con l’uniforme nera caratterizzata da una striscia bianca sulle maniche. A un segnale, scattano fuori dai loro rifugi con le armi in pugno e braccano un uomo, costringendolo a inginocchiarsi, mentre uno dei baby-mujahidin gli punta la pistola alla nuca. In un’altra scena i ragazzini salmodiano il Corano con alle spalle la bandiera nera dello Stato islamico dell’Iraq, l’ala irachena dell’organizzazione di Osama bin Laden. “Si tratta di una precisa strategia di al Qaida che cerca di educare le nuove leve del terrorismo reclutando bambini dagli 8 ai 14 anni” dice Muhammad Askari, portavoce dell’esercito iracheno. “Sono un pericolo per il futuro dell’Iraq”. Al nullismo mistico del terrorismo islamico dedica un nuovo strepitoso saggio lo storico Michael Burleigh, titolo “Blood and rage” (Harper Collins). “Al Qaida tenta di istillare l’odio ai bambini e di creare una cultura di violenza, odio e disperazione – ha detto il contrammiraglio Gregory Smith – Mandano ragazzini di 15 anni in missioni suicide per seminare la morte”. I terroristi hanno ucciso un bambino e minato il corpo in modo che esplodesse quando la famiglia fosse andata a recuperarlo. Hanno preso dei bambini per passare ai checkpoint ingannando gli americani. Si sono fatti saltare in aria insieme a loro. Hanno ucciso dei bambini con una bomba nascosta fra i giocattoli. Sono anche ricorsi al loro stordimento. “I terroristi islamici di al Qaida utilizzano bambini di dieci anni per eseguire attentati kamikaze”. Oggi per piazzare una bomba al Qaida paga un bambino tra i 200 e i 300 dollari, cifra che permette di sfamare una famiglia di almeno cinque persone per due o tre mesi. Il più delle volte si tratta di bambini delle classi sociali medio basse, che hanno smesso di andare a scuola, per povertà o per mancanza di sicurezza. Il maggiore Douglas Stone spiega che sono almeno cento i bambini già utilizzati in operazioni suicide. Secondo Peter Singer della Brookings Institution è la “generazione perduta” dei bambini musulmani. Al Qaida ha lanciato una vasta campagna di reclutamento di ragazzi nati negli anni 1991, 1992 e 1993, a ognuno dei quali sono state date armi, una bicicletta, un telefono prepagato e uno stipendio di 100 dollari al mese. Basta così poco per il jihad dei bambini. “Al Qaida vuole avvelenare l’attuale generazione” dicono dal quartier generale americano a Baghdad. La storia di Shakirullah Yasin Ali non è isolata. Due settimane fa una bambina di otto anni si è fatta esplodere in Iraq. Shauker Ullah avrebbe dovuto farsi esplodere a marzo a Kabul. Non sapeva guidare una macchina o leggere un libro, il Corano lo aveva imparato a memoria. Ullah ha quattordici anni. “Mi dissero che se avessi realizzato un attentato suicida non sarei morto. Mi dissero ‘sono stranieri, loro moriranno, tu no’”. Il presidente afgano Hamid Karzai è stato il primo a lanciare l’allarme. “Usano dei ragazzini, li drogano, utilizzano anche gli invalidi mentali”. Il fenomeno è coltivato da alcuni anni anche nei Territori palestinesi. Umm Nidal Farhat è nota come “la madre dei martiri bambini”. Apparve per la prima volta quando fu filmata mentre aiutava suo figlio, Muhammad, che usciva di casa per compiere l’attentato del 20 marzo 2002, nel quale restò ucciso. “Cosa vorresti dire alle madri di shahid?” le chiesero alla tv palestinese. “Prenderei loro le mani e chiederei loro di essere pazienti e ricordare che la morte col martirio assicura l’entrata in paradiso. Questa è la cosa più bella in questo mondo e nel mondo a venire”. Il comandante della Jihad islamica a Jenin, Abu Jandal, ha raccontato di “bambini con cinture esplosive ai fianchi. Uno dei bambini è venuto da me con il suo zainetto. Gli ho chiesto cosa volesse, e lui ha risposto: ‘Invece dei libri, voglio un congegno esplosivo, per attaccare…’”. Come racconta Burleigh, l’esempio più famoso di questa micidiale forma di sacrificio umano ha avuto luogo nel 2004, quando un palestinese di undici anni fu pagato un dollaro per portare un pacco attraverso i controlli di sicurezza israeliani. Il bambino non lo sapeva, ma il pacco conteneva una bomba che sarebbe stata fatta esplodere con un telecomando. Fortunatamente per il bambino e per gli israeliani, il piano venne sventato. Dopo che le autorità israeliane stabilirono che si trattava di un “strumento” innocente, il bambino venne restituito ai suoi genitori. La madre incolpò gli israeliani. Tutto è iniziato con la rivoluzione iraniana del 1979, l’ayatollah Khomeini emanò una legge che stabilì che tutti i bambini sopra i dodici anni d’età potevano arruolarsi senza il permesso del padre. Al tramonto, per anni, sui campi minati lungo la frontiera dell’Iraq, decine di migliaia di bambini andarono a farsi esplodere sui campi minati e contro le mitragliere degli iracheni. Sui loro corpi, poi, avanzavano i regolari. Il giurista di Harvard Alan Dershowitz sul Wall Street Journal parla di “adoratori della morte” per descrivere i predicatori e gli imam che hanno elaborato questa cultura infantile del martirio. Dall’Afghanistan all’Iraq passando per Israele, sotto i nostri occhi cresce di giorno in giorno il fenomeno di questi bambini kamikaze. Durante il recente assedio alla Moschea Rossa di Islamabad, una ragazzina di dieci anni divenne l’eroina della propaganda qaidista. Si chiamava Saima Khan e voleva morire da martire, aveva promesso di non uscire viva dal luogo sacro. “I bambini sono la prima linea” disse l’imam Abdul Rashid Ghazi. Ahmed Muhammad Uthman Abu-al-Yazid, capo della cellula egiziana che combatte in Afghanistan, che ha partecipato all’assassinio del presidente Sadat, ha detto che “invitiamo i genitori a non porsi fra i bambini e il Paradiso”. Un anno fa Sayyed Imam al Sharif, primo emiro dell’Egyptian Islamic Jihad e capostipite del salafismo raccontato in un mirabile saggio di Lawrence Wright sul New Yorker, ha invece stabilito che “è vietato per un minore andare a combattere senza il permesso di entrambi i genitori”. Ne è nata una storica diatriba teologica. “Milizie di bambini reclutate da Hezbollah” rivelava il 18 agosto 2006 il settimanale egiziano Roz Al-Yusuf. L’organizzazione jihadista libanese ha reclutato più di duemila bambini per trasformarli in potenziali “martiri”. Na’im Qasim, braccio destro del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, in un’intervista a Radio Canada ha detto: “Noi abbiamo figli martiri che purificheranno la terra dalla sozzura sionista. Ciò sarà fatto grazie al sangue dei martiri, finché alla fine conseguiremo i nostri obiettivi”. La tv di Hezbollah Al Manar ha trasmesso le dichiarazioni di madri di vari kamikaze, fra cui Umm Said (“Madre di Said”). “Spero che altri miei figli diventino martiri” ha detto la donna. Durante un talk show palestinese, un presentatore ha intervistato due bambine di undici anni: “Voi descrivete il martirio come qualcosa di bello. Pensate che lo sia?”. Risposta di Walla. “Il martirio è molto, molto bello. Cosa ci può essere di più bello che andare in Paradiso?”. Risposta di Yussra: “Noi non desideriamo questo mondo, ma la vita oltre la morte. Ogni bambino della nostra età deve pregare ‘O Signore, vorrei diventare un martire’”. “L’attacco terroristico che usa i bambini per sterminare la civiltà irachena viaggia sulla stessa linea di chi vuole distruggere Israele” ha detto lo scrittore Younis Tawfik. “Si tratta di un’ideologia nazista che tenta di soffocare il diritto alla vita di tutti”. I genitori di Hussan Bilal Abdul non sapevano che il loro bambino si sarebbe presentato imbottito d’esplosivo al check point israeliano di Hawara, vicino Nablus, per immolarsi a sedici anni nel nome di Allah. Non sapevano nulla i genitori di Rashida, la bambina-bomba scagliata contro un pulmino di turisti a Kusadasi, in Turchia, o quelli del tredicenne Abdul Karim, saltato in aria al posto di blocco americano di Kirkuk, in Iraq. Si dice che nel momento supremo del trapasso, l’anima del bambino-martire venga afferrata da Azra’il, l’angelo della morte, e portata davanti a Munkar e Nakir, i due angeli inquisitori che hanno il compito di interrogarlo prima di avviarlo al regno dei morti. Le anime devono percorrere il ponte Assirat, “più affilato di una spada”. I piedi degli infedeli scivolano facendoli precipitare nei sottostanti abissi infernali, mentre i credenti, i puri, si reggono in equilibrio e raggiungono il “Bacino del Profeta” nell’altra sponda dove dimoreranno in eterno. I “martiri” entrano direttamente in Paradiso. Lì trovano le acque zampillanti del fiume Al Kawthar, con cui estingueranno per sempre la loro sete. Il prato del Paradiso è solcato da ruscelli di acque correnti. Durante il funerale di Imad Mughniyeh, il terrorista responsabile della strage all’ambasciata israeliana di Buenos Aires, ha preso la parola Zahra Maladan, una madre di famiglia che dirige un magazine femminile a Beirut: “Se mio figlio non segue le orme dei martiri islamici, io non lo voglio”. Sui siti di al Qaida circolano le parole di un’altra madre orgogliosa della prole eroica: “Prima che si facesse esplodere il mio ragazzo mi ha chiamato al telefonino per avere un incoraggiamento e gli ho detto di ripetere i versetti del Corano”.
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