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L'Opinione Rassegna Stampa
09.06.2008 Dopo aver fatto fiorire il deserto
Israele affronta la sfida della tutela dell'ambiente

Testata: L'Opinione
Data: 09 giugno 2008
Pagina: 0
Autore: Stefano Magni
Titolo: «Israele, il deserto fiorito»
Da L'OPINIONE del 9 giugno 2008:

Lo Stato ebraico appare come un grande cuneo verde conficcato in un’immensa distesa color sabbia. L’auspicio del primo premier israeliano Ben Gurion (“Faremo fiorire il deserto”) non era pura retorica: il deserto è realmente fiorito e ora la sfida si ripete con la colonizzazione e lo sfruttamento agricolo del Negev. Israele è prima nei sistemi di irrigazione “goccia a goccia”, che permettono un utilizzo più intensivo dell’acqua risparmiandone la quantità. La nuova frontiera del verde, comunque, è la tutela dell’ambiente. E di questo gli israeliani si stanno occupando attivamente, con lo stesso zelo con cui sinora si sono lanciati nello sviluppo agricolo. Il verde israeliano è la dimostrazione che l’opera costruttiva dell’uomo che modifica l’ambiente e la preservazione della natura non sono affatto in conflitto tra loro. Gli alberi hanno un’importanza speciale in questo Paese. Al museo della Shoah, lo “Yad Vashem” di Gerusalemme, gli alberi sono piantati per ricordare i Giusti di Israele, gli uomini e le donne che contribuirono a salvare gli ebrei da morte sicura durante lo sterminio della Seconda Guerra Mondiale. Un albero viene tradizionalmente piantato in memoria di un defunto. Interi boschi sono nati in onore dei caduti, come quello di Tel Hai, piantato nel 1920 per ricordare l’omonima battaglia, uno dei primissimi scontri tra ebrei e arabi. Ma anche al di là del valore simbolico e tradizionale, ovunque in Israele gli alberi si moltiplicano. Sembra strano passare in mezzo a grandi boschi nel percorso che va da Tel Aviv a Gerusalemme, in pieno Medio Oriente, una zona del mondo che di solito ci si immagina come un deserto. Nessuno di questi boschi è naturale, preesistente all’arrivo dei primi pionieri ebrei nell’ultimo ventennio del XIX Secolo.

I boschi più “antichi” hanno un secolo di vita: sono un vanto del Paese e portano i nomi di chi li ha piantati e aiutati a crescere, decennio dopo decennio. In molti casi è una storia di tentativi, errori e correzioni, come quelli commessi per la creazione dal nulla della foresta di Herzl, voluta dal padre del sionismo nel 1909. Inizialmente si pensava a un bosco di ulivi, ma quegli alberi non potevano crescere nel suolo di Hulda, acquistato quattro anni prima da proprietari arabi e già inadatto alla coltivazione. Gli ulivi morirono in massa e ora ne sono rimasti pochi. In compenso, dal 1912, tutti attorno è stata piantata una grande pineta, molto più adatta a quel clima. E’ così ovunque, per tutti i tipi di ambiente: nelle zone più torride (come la depressione del Mar Morto) si trovano distese di palmeti, ben curati e delimitati, per la raccolta dei datteri; sulle rocce vulcaniche delle alture del Golan sorgono boschi di pini e querce e sembra di essere in Svizzera; nel deserto vicino al parco archeologico di Beit She’an si trovano oasi paradisiache, dove ci si può sdraiare all’ombra degli eucalipti, con i koala tra i rami... Koala?

Sì, perché il kibbutz di Nir David ha deciso di importare dall’Australia anche animali esotici, tra cui koala e canguri, che ora vivono felici in mezzo a un ambiente molto simile a quello in cui sono nati e cresciuti i loro avi australiani. Non sono le uniche razze protette: il piccolo Paese è costellato da parchi naturali, ben custoditi da guardie forestali, dove si trovano lepri, daini, e “topi delle rocce” all’apparenza marmotte, ma lontani parenti degli elefanti. Si può trovare anche qualche tigre. Che effettivamente crea qualche problema agli altri animali. L’acqua è la principale benedizione per chi arriva disidratato dal deserto. E nella “Terra Promessa” la custodia e il risparmio delle acque è di primaria importanza, sin dai piccoli particolari. Dall’acqua salatissima del Mar Morto si ricavano i preziosi sali, trattati dai kibbutz locali e venduti in tutto il mondo. E proprio nella regione del Mar Morto, si sta progettando un canale lungo 180 km per unire le sue acque al Mar Rosso, in cooperazione con la vicina Giordania (uno dei pochi Paesi arabi con cui Israele ha regolari rapporti diplomatici) in modo da impedirne il prosciugamento, altrimenti inevitabile nel lungo periodo. Gli ecologisti israeliani non sono del tutto d’accordo su questo progetto faraonico, perché ritengono che possa danneggiare l’ecosistema della zona. Ma chi può resistere alla tentazione di ricoprire di verde un’area ancora desertica? E salvare uno degli specchi d’acqua più famosi del mondo?

Per scaldare l’acqua per uso domestico non si usa il gas, ma l’energia del sole. Non c’è una sola casa in Israele che non abbia la sua cisterna sul tetto e il suo pannello solare. E’ una caratteristica del paesaggio urbano locale: cilindri bianchi che spuntano su tutti i tetti, senza alcuna eccezione, molto più numerosi delle antenne e delle paraboliche. In molti casi l’acqua viene scaldata direttamente dal sole, senza ricorrere a impianti fotovoltaici: basta una cisterna nera esposta al potente calore di un clima desertico per avere la possibilità di farsi un bagno o una doccia calda. Questo aspetto introduce anche a un altro dei punti cari agli ambientalisti: l’energia pulita. Oltre ai pannelli fotovoltaici, iniziano ad essere diffuse, da quindici anni a questa parte, anche numerose aree di sfruttamento del vento.

Sulle alture del Golan, per esempio, si nota una lunga schiera di pale eoliche, già funzionanti da un decennio. Anche in quel caso gli ecologisti locali hanno protestato, perché i grandi e moderni mulini hanno rovinato parte del paesaggio montano. Ma permettono, per lo meno, un piccolo risparmio sull’uso delle centrali a carbone e a petrolio, che sono tuttora la principale forma di produzione elettrica. Negli ultimi anni si sta cercando di rimediare anche a quel problema. Ad Ashkelon, nel Sud del Paese, è entrata in funzione una prima turbina a gas, molto più ecologica. Per i prossimi anni, il Governo ha avviato un programma di conversione massiccia delle centrali dal carbone e dal petrolio al gas, in modo da obbedire maggiormente a criteri di riduzione delle emissioni. Paradossalmente, il popolo che ha ideato la bomba atomica e che probabilmente possiede più di un centinaio di testate nucleari (mai dichiarate) non ha potuto sinora dotarsi di una centrale termonucleare per usi civili. Fino agli ultimi anni, infatti l’ambiente politico e diplomatico ostile che circonda Israele, lo ha impedito. Ora le cose stanno cambiando anche su questo fronte. Se Paesi come l’Egitto e l’Arabia Saudita si stanno impegnando in programmi civili e l’Iran rivendica il “diritto alla tecnologia nucleare”, non si capisce perché proprio Israele non possa sfruttare la forza dell’atomo per permettere ai suoi abitanti di scaldarsi e avere luce.

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