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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
09.06.2008 A colloquio con lo scrittore israeliano Meir Shalev
un articolo di Davide Frattini

Testata: Corriere della Sera
Data: 09 giugno 2008
Pagina: 26
Autore: Davide Frattini
Titolo: «Non è Abramo che fissa i confini»
Dal CORRIERE della SERA del 9 giugno 2008, un'intervista di Davide Frattini allo scrittore israeliano Meir Shalev

ALONEI ABBA — La doccia in giardino è stata costruita finito il libro. Lava via il desiderio di bagnarsi al tramonto e innaffia i fiori selvatici, che crescono liberi e accuditi. «Me l'ha regalata mia figlia per il compleanno» racconta Meir Shalev. «Dopo aver letto il romanzo, mi ha detto "non sapevo che la desiderassi così tanto"». È una doccia con vista: verso le colline della Galilea, il verde degli ulivi e il rosso degli anemoni. Ed è l'ultimo mattone che andava aggiunto alla casa, dove lo scrittore ormai passa più tempo che a Gerusalemme. «Sono nato da queste parti, nella valle di Yezreel. Ricordavo il villaggio, mi sono innamorato del panorama, delle vecchie pietre». Ci è tornato, come il piccione viaggiatore de Il ragazzo e la colomba, pubblicato in Italia da Frassinelli. «Preferisco il nome inglese, homing pigeon. Viaggiatore indica la funzione che noi gli diamo, mucca da latte o cane da guardia. Non è rispettoso».
Homing, casa, nostalgia. Il libro è un omaggio alla terra dove Shalev è cresciuto. Odori, sapori, colori. Il protagonista Yair è una guida turistica che non si stanca di girare, girando scopre e riscopre. «Il piccione non è un simbolo politico. Ho pensato piuttosto all'uccello biblico dell'Arca di Noè, che vola avanti e indietro fino a quando non trova un lembo asciutto sui cui posarsi». Ha pensato all'epigrafe sulla lapide di Robert Louis Stevenson, scrittore viaggiatore che alla fine ha trovato il suo lembo sull'isola di Samoa: «Tornato è il marinaio, tornato dal mare. E tornato dal colle il cacciatore».
Shalev ha sessant'anni come lo Stato d'Israele. La terra che gli manca quando va all'estero, anche solo per una settimana, non porta la «T» maiuscola. «La patria è un'idea storica e spirituale. Coloro che la amano sono inclini al sentimentalismo e all'estremismo. Io non voglio mantenere i confini dei tempi biblici, tutta "la terra dei nostri padri". Abbiamo il diritto a uno Stato ebraico qui, in questa regione, ma le frontiere devono essere definite da considerazioni pragmatiche. Dettate dal presente non dal passato, non da quello che Dio promise ad Abramo». È come se continuasse da solo una discussione cominciata quarantuno anni fa con il padre, il poeta Yitzhak Shalev. Seduti in cucina, il figlio in divisa, a casa dopo aver combattuto sulle alture del Golan, durante la guerra dei Sei giorni. «Mio padre sosteneva la destra nazionalista, i suoi versi erano messianici, esaltavano la conquista di Hebron, la tomba di Rachele. Io gli ho detto: "Abbiamo addentato un boccone che finirà con il soffocarci". Da allora non abbiamo più parlato di politica».
Da allora, Shalev si è sempre più convinto che quel boccone vada rimesso nel piatto. «Le motivazioni sono pratiche, nell'interesse di Israele, per evitare la nascita di uno Stato binazionale, spartito tra due popoli. Se non lasciamo i territori palestinesi, diventeremo un Paese non democratico. O perché il potere verrà preso da una maggioranza araba (e non vedo nazioni arabe democratiche nel mondo). O perché gli ebrei diventeranno una minoranza e per mantenere il controllo dovranno rinunciare alla democrazia. Dobbiamo rinunciare a una parte della nostra patria per avere uno Stato migliore e più normale». Dice di non essere «il tipo del pellegrino». «Il mio Abramo o la mia Rachele sono nella Bibbia, non mi interessa avere la sovranità sui luoghi dove sono sepolti. La Bibbia è il libro che ho sempre sul tavolo e che mi ricorda quale miracolo sia l'ebraico. Un linguaggio dove nella stessa frase puoi trovare una parola vecchia di duemila anni, intatta, e un'espressione dal gergo della strada. Come scrittore, la mia linea culturale risale alla Genesi, senza interruzioni». Il suono di quelle parole gli manca, se è costretto ad andare all'estero. «Non riesco a star via per lunghi periodi. Mi hanno offerto ospitalità in università straniere, lontano dalle notizie, in qualche posto tranquillo. Ma non potrei scrivere da nessun'altra parte, ho paura che qualcosa di brutto possa succedere quando non ci sono. Il mio corpo sente la nostalgia per l'olio e i pomodori: l'Italia e la Grecia sono gli unici Paesi dove posso resistere un po' di più». Un legame con Israele che neppure il disincanto riesce a indebolire. «Il fatto che io critichi le decisioni del governo o della Knesset, che rimpianga i politici del passato non mi impedisce di amare la storia, i luoghi, la natura, la gente».
La religione. Da laico, è d'accordo con l'amico Abraham Yehoshua, che ha detto di sentirsi più vicino a un ultraortodosso moderato che a un intellettuale musulmano come il poeta palestinese Mahmoud Darwish. «Non ci sono dubbi. Abbiamo molti più elementi in comune. Il problema è che non vedo gli intellettuali arabi criticare i loro estremisti come io critico i miei. Vorrei che affrontassero questi problemi con più coraggio, vorrei che potesse nascere una vera alleanza tra i moderati».

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