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La Stampa Rassegna Stampa
08.06.2008 Ahmadinejad l'ha inventato l'America
Le allucinazioni di Barbara Spinelli sul quotidiano Fiat

Testata: La Stampa
Data: 08 giugno 2008
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «Il candidato meticcio»

Una Barbara Spinelli scatenata, quella che scrive oggi, 08/06/2008, a pag. 1-34, sulla STAMPA l'abituale editoriale domenicale. Il titolo è " Il candidato meticcio", Obama naturalmente, come se l'esserlo fosse di per sè una qualità e quindi un  vantaggio. Neanche la visione di un Mugabe, tra i criminali sulla terra oggi tra i più grandi, fermerebbe lo sfrenato terzomondismo della Spinelli. A leggerla si perdono alcuni minuti che potrebbero essere dedicati a migliore lettura, eppure la proponiamo ugualmente ai nostri lettori perchè la sua predica domenicale, sul giornale della Fiat, aiuta a capire in che mondo viviamo. Quando scrive < Con le sue mani, Washington ha fabbricato il Golem che è Ahmadinejad > ci rendiamo conto di quanto l'ossessione antiamericana, e a seguire quella antisraeliana, abbia permeato con i suoi miasmi la nostra informazione. L'odio contro il è ugualmente diffuso sui nostri media, il pezzo della Spinelli poteva uscire su Manifesto/Liberazione/Unità senza modificare una virgola. Queste osservazioni prescindono, ovviamente, dalla candidatura di Barack Obama, saranno gli elettori americani a decidere chi mandare alla Casa Bianca. Come sempre avviene in quel paese.  Ecco l'articolo:

D’un tratto tutto quello che in Europa aveva l’aria d’essere la modernità si sfalda e ingrigisce e invecchia, messo a confronto con quello che accade nelle presidenziali americane: un po’ come succede al Centro Pompidou di Parigi che nei primi Anni 70 fu avanguardia assoluta, con i suoi furibondi colori e i suoi tubi d’acciaio, e presto divenne stranamente decrepito, troppo decifrabile. L’ascesa di Barack Obama e la sua vittoria sulla casa Clinton nelle primarie democratiche ha questo, di inatteso e scompaginante: fa invecchiare d’improvviso quello che sembrava ineluttabilmente vincente, smentisce credenze cui tanti si erano conformati, a destra e sinistra. L’idea che esista un’unica via liberista per aggiustare l’economia, che la globalizzazione possa esser governata con vecchi politici nazionali e vecchie identità monocolori, che l’intervento dello Stato nell’economia sia sempre sciagurato, che nei governanti non conti più l’etica, che l’uso politico della paura e della xenofobia siano redditizi: tutti questi convincimenti sono sbriciolati da un candidato americano e globale al tempo stesso, figlio di un africano keniota, cresciuto in Indonesia, rientrato nelle migliori università statunitensi. Il suo esser meticcio fa impressione nel piccolo universo bianco, ma tre quarti della terra gli somigliano.
Forse il candidato nero non vincerà contro McCain, ma il mero fatto di correre per la Casa Bianca scompagina i manuali del successo. Scompagina due certezze, in particolar modo. La certezza che gli Anni 60 e il ’68 siano un angolo morto della storia, da deplorare senza fine. E la certezza che l’impero Usa sia qualcosa di rigido, non esposto a mutazioni profonde. È invece un oggetto bizzarro, debole e però straordinariamente elastico. Una lunga pratica di arroganza l’ha sfibrato, sino a produrre l’anticorpo Obama. La sua duttilità è unica perché crea tali anticorpi, e restituisce fascino alla democrazia e alla convivenza etnico-razziale.

Son scombussolati in primo luogo gli stereotipi sul Sessantotto: in Europa è di grandissima moda denigrarlo, l’Italia lo sa e anche la Francia, dove Sarkozy ha costruito una carriera su simile denigrazione. In America la maldicenza è più antica: l’offensiva contro i liberal degli Anni 60 cominciò con Nixon e proseguì nel ’94 con la rivoluzione conservatrice di Newt Gingrich e la vittoria repubblicana alle legislative. Bush e i neo-conservatori sono figli di questa rivoluzione dell’acrimonia. Molti acrimoniosi hanno partecipato al ’68 ma poi si sono trasformati, adeguandosi al più moderno spirito dei tempi: spesso si son fatti stranamente beghini e falsamente virtuosi, come accade a chi si congeda da una gioventù scapestrata. Somigliano alla vereconda madama Pernelle, che nel Tartufo di Molière insulta ogni sorta di libertà. L’età «ha messo nella sua anima uno zelo ardente» che l’induce a denigrare la spregiudicatezza dei giovani, e a difendere il devoto ipocrita Tartufo. «Col velo pomposo di un’alta saggezza dissimula la miseria delle sue tramontate seduzioni», così è derisa dalla servetta Dorine. Parecchi neo-conservatori denunciano il ’68 allo stesso modo: un ardente zelo li porta a cancellare un’epoca intera, senza la quale Obama oggi non sarebbe dov’è.
Obama non è un sessantottino, in più modi lo fa capire. Se ha vinto alle primarie contro Hillary Clinton è perché ha sormontato quella che vien chiamata l’iconografia del ’68: le battaglie di liberazione dei neri o delle donne viste come fini in sé, da ottenere solo per la propria classe o razza o genere. Schiava del ’68 si è rivelata Hillary, e non le è stato d’aiuto. Ma Obama è pur sempre il prodotto di un movimento favorevole alla varietà e all’incrocio col diverso, anche se di esso non è preda. In Europa possiamo continuare a credere che l’avvenire appartenga a chi liquida gli Anni 60: le battaglie di emancipazione, giustizia, uguaglianza; le canzoni di Moustaki sul métèque. In America quest’iconoclastia è già finita, sia che Obama vinca sia che perda.
La seconda idea scompaginata concerne l’impero americano e il suo degradarsi. Anche qui Obama è specchio del male e anticorpo che il male ha saputo secernere: è un annunziatore estremamente realistico della crisi, anche se non sempre è disposto a guardarla davvero traendone tutte le conseguenze. Dice che la guerra al terrorismo si è sfracellata in Iraq, sbrecciando in maniera enorme e durevole l’immagine mondiale dell’America e la sua capacità di influenzare gli eventi, soprattutto nel mondo arabo e musulmano. Con le sue mani, Washington ha fabbricato il Golem che è Ahmadinejad e l’ambizione iraniana all’egemonia nella regione più conflittuale del pianeta. Alcuni, come Niall Ferguson, parlano già di breve impero americano: ben più breve dell’antica Roma che i neo-conservatori sognavano d’emulare.
Non è chiaro se Obama sappia fino in fondo l’infermità che annunzia. Sia lui che McCain la descrivono con severità, sperano di riparare, correggere. Ma in America le presidenziali hanno spesso questo tono: i candidati lamentano il declino di una nazione che continuano a vedere come eletta, impareggiabile. Anche oggi rischia di esser così, Stephen Sestanovich lo spiega bene in un articolo su Slate online del 2 giugno. Ambedue i candidati, scrive, coltivano la speranza che non sia vero quel che dicono: che non sia vero che l’America è più che mai debole, inascoltata. Quando McCain propone una nuova comunità occidentale, quando vuol escludere la Russia dal Gruppo degli Otto, non sa la differenza fra il dire e il poter fare: non sa le diffidenze europee, non sa che la Russia sarà difficile metterla alla porta con un ukase americano.
Obama è assai più realista, specie sul disastro iracheno, ma l’illusione assedia anche lui. Non basta parlare con Ahmadinejad per indurlo alla ragione, per il semplice fatto che il suo regime ha sin d’ora una razionalità, diversa dall’occidentale. L’Iran di Ahmadinejad è un po’ come la Prussia di Federico il Grande, nella seconda metà del ’700: tutte le potenze nell’Europa continentale si coalizzarono per abbatterlo, ma attraverso la guerra e l’isolamento la Prussia, da parvenu che era, divenne nazione cruciale. La convinzione dei politici americani è che se solo usi razionalmente la tua testa, diventi subito filo-americano e filo-occidentale: altrimenti devi esser pazzo. È la presunzione imperiale che genera queste chimere, e che spiega alcuni cedimenti di Obama all’unilateralismo conservatore.
I nipoti del ’68 hanno superato le scarsezze e perentorietà dei nonni ma hanno un bisogno esistenziale di legittimità, e questo frequentemente li intimidisce. Pensano che per esser accettati devono mostrarsi più centristi, cioè di destra (sono «mercanti di razze» e «prigionieri della politica dell’identità», secondo Shelby Steele, scrittore nero e conservatore) e il loro incubo è Israele, che in America è tra i massimi dispensatori di certificati di legittimazione. Anche questo cambierà, e non necessariamente in meglio per gli ebrei della diaspora e neppure per Israele. Ma per ora, l’imprimatur dei gruppi di pressione ebraici (dell’Aipac in primis - American Israel Public Affairs Committee - più conservatore del governo israeliano) è essenziale. È all’Aipac che Obama ha fatto una promessa ritenuta eccessiva dallo stesso Dipartimento di Stato, il 4 giugno: la difesa di Gerusalemme «capitale indivisa d’Israele».
Chi viene dal ’68 sente di dover continuamente scusarsi, anche se i difetti del ’68 li ha superati tutti. Obama rischia di sperdersi nel trasformismo, a forza di scusarsi. Rischia di ripetere l’esperienza Hillary: troppo sicura all’inizio, troppo underdog alla fine, quando per scelta s’è trasformata in emblema di chi per mestiere o destino è un perdente.

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