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Responsabilità di fronte alla storia.
La filosofia di Emmanuel Levinas tra alterità e terzietà
a cura di Massimo Durante
Il Melangolo Euro 25
“Quando verrà?”. Qual è il giorno fissato per la venuta del Messia? Rabbi Yehoshua ha questa sola domanda da rivolgere a Elia, ed è il quesito centrale dell’intera storia ebraica. Benché profeta, Elia non sa rispondere. C’è una sola persona che può soddisfare la curiosità del rabbi, ovvero il messia stesso. Se non altro, Elia sa dove trovarlo, il salvatore d’Israele. Sa che “sta alle porte di Roma. E’ tra i giusti che soffrono, tra i mendicanti tutti coperti di piaghe”. Rabbi Yehoshua si precipita laggiù e non stenta a riconoscerlo. Gli sventurati infatti si tolgono le bende, si curano le ulcere e poi si rifasciano. Il messia, invece, si cura le piaghe una a una e non svolge mai le fasce tutte assieme, perché può essere chiamato in ogni istante. Allora, incalza il rabbi, “Quando verrai?”. La risposta è “Oggi stesso”. Per centinaia di anni la tradizione rabbinica s’è interrogata su quell’”oggi stesso” e sul significato della leggenda talmudica che relega il messia proprio in mezzo ai diseredati della città che in antico era antagonista di Gerusalemme. Tra le letture novecentesche di questo apologo paradossale spicca l’esegesi di Emanuel Levinas. Per il filosofo, l’”oggi” messianico taglia di sghembo il corso della storia. Il regno messianico non è né un regno né una fine. Lungi dall’impersonare il re vittorioso e possente, che con la propria venuta suggella il divenire, il messia levinassiano assomiglia a un umile maestro, che sfrutta l’inesauribile forza della sofferenza. In un bel volume a più voci, curato da Massimo Durante, si dà conto di questa lotta di Levinas contro l’architettura mitica del giudaismo. Quello del filosofo francese è un messianismo in chiave esistenzialista, che si contrappone ai salvatori taumaturghi studiati, per esempio, da Gershom Scholem. A Levinas importa soprattutto la tensione che può trasformare il reale: “Il messianismo non è altro che l’apogeo nell’essere, la centralizzazione, la concentrazione o la torsione su di sé dell’io. E questo significa concretamente che ciascuno deve agire come se fosse il messia”. Non uno dunque ma ciascuno, è la proposta di Levinas. Potrebbe sembrare un esito razionalista, e l’indebita trasposizione allegorica di un contenuto fortemente politico. E forse lo è, almeno in parte,anche se Levinas, da buon conoscitori di testi talmudici, sfrutta con abilità le aporie insite nell’ossimoro di un messia inafferrabile, che pure è sempre in procinto di giungere. D’altronde, parlare di messia in un Novecento sfigurato dalla Shoah fu compito azzardato. Da dove ricominciare, allora, dopo la cesura insanabile dello sterminio? Dalle tracce, suggerisce Levinas. Da tutto ciò che resta, dai frammenti di ricordo, per tenui che siano: “La traccia è un vuoto, una mancanza, un’assenza; essa mi rinvia a qualcosa (o a qualcuno) che è definitivamente, irrevocabilmente passato”. Forse, sembra suggerire Levinas, la sapienza segreta del messia mendicante era fatta davvero di tracce quasi illeggibili. E forse per questo il salvatore sofferente non osava – e non osa, se è ancora alle porte di Roma – svolgersi le fasce dell’afflizione.
Giulio Busi
Il Sole 24 ore
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