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La Stampa Rassegna Stampa
01.06.2008 Aharon Appelfeld, ritratto di un grande della letteratura israeliana
di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 01 giugno 2008
Pagina: 37
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Lo strano destino dell'ebraico che i figli insegnano ai padri»

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Sulla STAMPA di oggi, 01/06/2008, a pag.37, con il titolo " Lo strano destino dell'ebraico, che i figli insegnano ai padri ",un appassionato ritratto di Aharon Appelfeld di Elena Loewenthal.

Ogni letteratura nazionale ha una lingua e un destino. L'ebraico è la voce della scrittura israeliana. E' una lingua antichissima, talmente antica che Dio la usa per costruire il mondo, attraverso la parola: almeno così racconta la Bibbia, degli inizi. Ma è anche una lingua nuova, tornata alla vita -di tutti i giorni, non soltanto quella riposta fra i versi delle preghiere - all'incirca un secolo fa. Per questo Israele era, qualche decennio fa, quello strano paese in cui i figli insegnavano a parlare - in ebraico - alle madri. E non, come accade da sempre ai quattro angoli del mondo, il contrario. Erano i bambini a scandire le parole per le madri che avevano attraversato la Shoah ed erano giunte profughe a questa terra. Per i padri nati e cresciuti con lo yiddish, il polacco, il tedesco, il russo.
Per Aharon Appelfeld, uno fra i grandi scrittori israeliani del nostro tempo, non è stato così: «La nostra casa è vasta e piena di stanze. Un balcone si affaccia sulla strada, l'altro sul giardino pubblico. Le tende sono lunghe e toccano il parquet, e quando la cameriera le cambia, l'odore di amido si diffonde in tutta la casa. Ma più delle tende amo il pavimento o, meglio, il tappeto che copre il pavimento… La mamma e io parliamo tedesco. A volte ho l'impressione che la mamma si senta a disagio per come parlano il nonno e la nonna e vorrebbe che non udissi la loro lingua. Nonostante tutto mi faccio coraggio e domando: Come si chiama la lingua che parlano il nonno e la nonna? Yiddish, sussurra la mamma al mio orecchio» (da «Storia di una vita», pubblicato da Guanda, pp.200, € 14)
Aharon Appelfeld nasce infatti nel 1932 a Czernowitz, in Bucovina. Viene al mondo in una famiglia ebraica colta e benestante: l'imprinting linguistico che sua madre gli trasmette è il tedesco illuminato e umanista ai cui valori il piccolo Aharon viene educato. Ma di lì a qualche anno tutto si capovolge brutalmente, e la sua lingua madre diventa l'urlo dello sterminio. Dei carnefici. Quella lingua gli strappa via padre e madre e lui, a soli otto anni, fugge nei boschi. Lì, fra bande partigiane e compagnie equivoche, Aharon sopravvive. Nel 1944 viene raccolto dall'Armata Rossa e alla fine della guerra, dopo tante peripezie, arriva in Italia. Nel 1946 approda in terra d'Israele. Sono gli ultimi mesi del mandato britannico. Nel novembre del 1947 una risoluzione ONU sancisce la nascita di due stati nella regione di Palestina. Nel maggio del 1948 è dichiarato lo stato d'Israele, dove da allora Aharon Appelfeld vive, scrive, insegna letteratura ebraica all'università Ben Gurion di Beer Sheva.
Aharon Appelfeld non ha potuto insegnare l'ebraico a sua madre e a suo padre, perché ha perduto tutto il suo mondo nell'abisso della Shoah. Lì, ha lasciato anche la lingua madre, per trovarne un'altra in Israele. Il suo ebraico è cadenzato, paziente come l'indole di questo scrittore così mite e potente al tempo stesso. Racconta che ha incominciato a scrivere quand'era ancora adolescente e studiava in una scuola agricola, dove si formavano le nuove generazioni di ebrei pronti a un contatto diretto con la terra, con il lavoro. La sera, dopo le fatiche quotidiane, Appelfeld cominciò a trascrivere su un pezzo di cartone i nomi dei suoi cari: per non dimenticarli. Ma anche e soprattutto per rievocarne i volti e le voci, attraverso il nome. E poi la Bibbia, che è stato il suo viatico per la letteratura: leggendo le storie dei patriarchi, le avventure degli eroi nell'antico Israele, egli ha preso confidenza con questa lingua e anche con il mondo nuovo in cui era arrivato.
Da allora, Aharon Appelfeld ha scritto molti libri. Racconti, romanzi, stralci di autobiografia. Il lettore italiano trova «Tutto ciò che ho amato» (Giuntina 2002), che narra della doppia anima del popolo ebraico. E poi «Notte dopo notte» (pubblicato da La Giuntina nel 2004, storia di un gruppo di amici ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio che sognano di far rivivere la lingua Yiddish), «Badenheim 1939» (Guanda 2007, il silenzio di una località di villeggiatura austriaca frequentata da ricche famiglie ebree prima della tragedia della Shoah. È con questo che ha ricevuto il Premio Speciale Grinzane Cavour), «Storia di una vita» (quasi un’autobiografia, sempre per Guanda, 2008), e presto arriverà in libreria anche «Tsili» (Guanda), la storia di una bambina dentro la guerra e la solitudine. Perché questi sono i suoi temi ricorrenti: lo scontro brutale e terribile fra il mondo ebraico d'Europa e la «soluzione finale» che, se pure lasciò dei sopravvissuti, certo distrusse quel mondo. Nelle storie di Appelfeld, quel mondo di prima ha un che di trasognato, sospeso un po' come le figure nei quadri di Chagall. Egli racimola ricordi e immagini, ma quella realtà di prima della Shoah sembra irraggiungibile: persino dai ricordi, che sono soltanto un pallido riflesso, un'ombra di ciò che c'era e non c'è più. Le storie di Appelfeld hanno sempre un doppio volto: una misura drammatica, profondamente realistica. L'autobiografismo è sempre, più o meno direttamente, presente nella sua scrittura. Ma tutto è anche venato di un certo surrealismo, che è forse l'unico modo per non arrendersi al male assoluto incarnato dal nazismo.

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