Così Al Qaeda perseguita gli yazidi iracheni la testimonianza del capo della comunità Ali Seedo Rasho
Testata: Il Foglio Data: 29 maggio 2008 Pagina: 2 Autore: Giulio Meotti Titolo: «La strage degli angeli»
Dal FOGLIO del 29 maggio 2008:
Ero lì dopo la distruzione e posso dirle che sembrava un’esplosione nucleare. Hanno raso al suolo due interi villaggi”. Ali Seedo Rasho fatica a trattenere il pianto al pensiero di come al Qaida ha sventrato il suo villaggio di al Jazeera. Come leader della comunità yazida irachena, quel 14 agosto 2007 Ali partì dal Cairo, dove lavora all’Università americana, per andare a scavare dentro al cratere del più spaventoso attentato terroristico dall’11 settembre. La strage degli angeli yazidi. “Come faccio a spiegarle cosa accade a un villaggio costruito sul fango e il legno e nel quale vengono fatte esplodere due autocisterne piene di esplosivo?” racconta Ali al Foglio. “Ho visto tutto distrutto, ho visto gente aprire gli occhi attonita. Non sapevano neppure cosa fosse successo. Tutti correvano a recupare i corpi dei familiari sotto le macerie. Niente acqua, niente cibo né medicine per tre giorni. Ho estratto dalle macerie una bambina e ne abbiamo ammassati tanti all’aperto per risparmiare tempo. Non sapevano neppure a chi appartenessero tutti quei corpi. Ancora nessuno sa chi siano molti di loro. I terroristi avevano scelto il tramonto per compiere la strage, la notte avrebbe rallentato tutto”. Le truppe americane e irachene hanno cercato di fare del proprio meglio. “Ma i loro sforzi erano risibili rispetto all’ammontare di distruzione. Gli ospedali erano incapacitati a ricevere tutti. Molti sono letteralmente evaporati nell’esplosione. Di molti non resta niente. La cosa più incredibile fu una donna anziana, mi disse di essere l’unica superstite della sua famiglia. Alla clinica di Qahtania ho visto una bambina senza gambe, altri non riuscivano a parlare”. Secondo l’ultimo bilancio della Croce rossa irachena, nella strage persero la vita 796 persone. Altri parlano di un numero inferiore, ma con un bilancio imprecisato di dispersi. Il figlio di Ali è scampato all’eccidio. Quelli contro le comunità yazide di Qataniya, Adnaniya, al Jazeera e Tal Uzair sono gli attentati più sanguinosi dall’inizio della guerra e il secondo più vasto dall’11 settembre. Gli attacchi coordinati, che hanno coinvolto cinque veicoli bomba, hanno causato l’incenerimento di due interi villaggi. Case polverizzate. Morti disposti alla rinfusa davanti agli edifici governativi, in attesa che qualcuno li riconoscesse e li portasse via. Per molti non si è presentato nessuno, non c’erano vivi a reclamarli. Le esplosioni hanno sterminato famiglie e interi clan. Le vittime erano contadini poveri senza difese. I terroristi che hanno pianificato gli attentati, per mezzo di camion imbottiti con due tonnellate di esplosivo, hanno cercato deliberatamente di sterminare una comunità religiosa che da sempre considerano “eretica” e “antiislamica”. Faceva parte di un piano di conversione all’islam degli yezidi iracheni. “Fu un atto di pulizia etnica, un genocidio” disse il comandante delle truppe statunitensi nel nord dell’Iraq, il generale Benjamin Mixon. Si voleva distruggere una delle più antiche comunità dell’Iraq. “Questi terroristi vogliono acquistare un biglietto per il Paradiso con il sangue e l’agonia degli innocenti” ha detto lo scrittore curdo Hussein Sinjari. Da allora molti yazidi hanno preso la strada dell’esilio e la loro cultura millenaria oggi rischia fisicamente l’estinzione. Ali Rasho è impegnato a tenere alta l’attenzione. Se non ci sarà un’inversione di tendenza, tra qualche anno la Mesopotamia, la terra dell’Eden, sarà svuotata dei suoi antichissimi abitanti che costituiscono uno dei più grandi misteri religiosi. E poi, dove fuggire? In Turchia i funzionari del governo si rifiutano di riconoscere lo yazidismo. E, alla voce religione presente sul passaporto e sulla carta di identità turca, inseriscono la parola “Islam” seguita da tre croci, a sottolineare la miscredenza. Samir Khaled Rashou in Iraq ha smesso di ballare alla yazida, come usava nella sua comunità, “abbiamo paura che ci colpiscano di nuovo”. Un altro yazido, Abu Saeed, quel giorno di ferragosto perse cinquanta membri della famiglia. Prima della strage al Qaida aveva spedito a numerose comunità yazide le “lettere della notte”, con le quali li invitava a lasciare le loro case o sarebbero stati uccisi. Il 17 agosto del 2004 uno yazida di Bashiqa fu decapitato e mutilato, gli lasciarono addosso una lettera in cui si minacciavano gli altri in quanto “impuri”. Accusati di blasfemia, politeismo e apostasia dai fanatici islamisti, gli yazidi hanno elementi pagani, cristiani, ebraici, gnostici e islamici. I musulmani ortodossi li squalificano come “adoratori del demonio”, al Qaida ne giustifica la morte in quanto “infedeli”. L’emiro di al Qaida Abu Omar al Baghdadi ha rivendicato la strage dicendo che “continueremo fintanto che questi leader satanici non consentiranno la conversione di ogni yazido all’islam”. La loro figura preminente, Melek Ta’us, è uno dei sette angeli ai quali Dio ha affidato il mondo. Il culto ha tratti che lo avvicinano all’arcangelo Michele. Le origini sono un vero mistero scientifico e, a parte qualche studioso musulmano che ne ha fatto con superficialità una setta dell’islam, hanno dato e danno filo da torcere a tutti gli specialisti. La religione yazida è monoteistica, anche se conosce un certo numero di esseri semidivini o addirittura divini che sono qualcosa di intermedio tra il Dio e l’uomo e che le conferiscono un carattere politeistico. Come gli induisti, credono nella reincarnazione. Come i cristiani, praticano il battesimo. Come gli zoroastriani, pregano rivolti verso il sole. La liturgia comprende elementi ebraici e islamici, come la circoncisione e il digiuno, ma anche elementi cristiani e mitraici, come lo spezzare il pane. Gli yazidi sono stati dei sostenitori dell’intervento americano che ha rovesciato Saddam Hussein. Parlano il curdo con un vocabolario zeppo di parole persiane, hanno sofferto numerose persecuzioni durante le dominazioni musulmane e loro ripetono come una litania i “73 genocidi” che hanno subito. Lo sterminio arabista iniziò nel 1170, quando l’espansionismo musulmano si lasciò alle spalle 50 mila yazidi. Kayiri Shankali, direttore per gli affari yazidi presso il governo regionale del Kurdistan iracheno, ha appena fatto sapere che più di 200 famiglie yazide sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni per non subire nuovamente minacce e attacchi terroristici. I terroristi attaccano soprattutto villaggi e fattorie della zona di Sinjar, con missili Hawn, allo scopo di spaventare gli abitanti in modo tale da costringerli ad abbandonare le proprie case. A dicembre i terroristi hanno ucciso sette yazidi, mentre tornavano a casa nelle vicinanze della città di Sinjar. Il sindaco Dakheel, Qasim Hassoun, ha detto che tutte le vittime erano appartenenti allo stesso nucleo familiare. Quando la polizia ha provato a recuperare i corpi e i feriti, una bomba collocata sul lato della strada ha ferito tre poliziotti. “Di fronte a questa barbarie commessa nel nome dell’islam, gli stati arabi e musulmani restano in silenzio, esattamente come essi non avevano reagito in occasione delle operazioni di genocidio di Saddam Hussein contro i Kurdi” ha detto Kendal Nezan, presidente dell’Institut kurde de Paris. “Quelli erano i miei villaggi, era la mia gente” prosegue nel racconto al Foglio Ali Seedo Rasho, che presiede l’Associazione culturale yazida in Iraq. “Ho tutti i nomi delle vittime, ho visto scomparire intere famiglie. La situazione sta peggiorando ogni giorno, a partire dal massacro di agosto. I villaggi yazidi sono concentrati in una zona dominata da al Qaida. Il governo iracheno sta facendo qualcosa. Mio figlio in Iraq mi parla di una lenta ricostruzione ma anche di una paura profonda per il nostro futuro. Al Qaida ci ha bollato come ‘infedeli’, quindi pensano che tutto possa essere commesso contro gli yazidi. La legge degli islamisti è chiara: è lecito spargere il nostro sangue, distruggerci, convertirci, prendere le nostre donne e i nostri figli”. Secondo alcune stime, gli yazidi rimasti in Iraq sono circa 400 mila, la maggior parte vive nelle città di Bashika e Sinjar, sotto il controllo curdo. Altri piccoli gruppi vivono nell’Iraq settentrionale mentre una piccola comunità risiede a Baghdad. In numero minore, gli yazidi sono presenti anche in Siria, Turchia, Iran, Georgia, Armenia, Russia e Germania. Sotto Saddam Hussein, 250 villaggi yazidi furono rasi al suolo, molti luoghi di culto distrutti e vandalizzati, le loro acque avvelenate. Dopo l’avvento al potere del partito Baath nel 1968, venne emanata una direttiva secondo la quale gli yazidi dovevano “tornare alle origini arabe”. Considerati un gruppo distanziatosi dall’islam, furono messi in atto programmi per cambiare drasticamente la demografia nelle zone yazidi. Nel corso di questa politica di arabizzazione, il regime Baath diede ai centri yezidi nomi arabi. Inoltre si intensificarono i tentativi di conversione all’islam. Al posto degli abitanti originari vennero insediati coloni arabi, finanziati con denaro e ben armati. In una leggenda, gli arabi li fanno discendere dal re ebreo Salomone, che si fece mandare da oriente centinaia di vergini. Le fanciulle, attraversando il Kurdistan, caddero nelle mani dei ginn, i geni delle “Mille e una notte” guidati da un demone di nome Giasad. Da quest’empia unione sarebbero nati i curdi. Altri li identificano con gli intrattabili carduchi che vivevano sottoterra e che diedero filo da torcere a Senofonte durante la famosa Anabasi. Una leggenda persiana parla del mostro Zahhak: due giovani venivano uccisi ogni giorno per saziarlo, finché un cuoco non sostituì il pasto con cervello di montone, permettendo ai due scampati di fuggire sulle montagne per procreare i curdi yazidi. Fra i più grandi amici degli yazidi ci sono i cristiani mandei, anche loro perseguitati dall’islamismo. Liquidata la comunità ebraica, quella dei Profeti e del Talmud, anche l’ottanta per cento dei mandei, il più antico culto gnostico, ha lasciato l’Iraq. Nel gennaio 2005 una delle loro figure di spicco, Read Radhi Habib, fu ucciso dopo aver rifiutato di convertirsi all’islam. I più antichi documenti scritti dello yazidismo sono lamenti per lo spegnimento forzato dei sacri fuochi zoroastriani e per i massacri subiti durante l’invasione islamica del VII secolo. Leggendaria è la loro resistenza ai dominatori stranieri calati su Mosul, posta ai piedi delle montagne del Kurdistan, addossata al fiume Tigri e con il deserto alle spalle, da cui passano tutte le strade di collegamento verso Aleppo e Damasco, il Mediterraneo l’Anatolia e la Turchia. Gli yazidi superarono indenni il dominio di safavidi e ottomani, che si contesero il controllo di Mosul perché rappresentava la chiave per il controllo dell’intera regione caspiana a oriente. I mongoli di Gengis Khan, che pure avevano preso Baghdad nel giro di appena una settimana, a Mosul avevano dovuto mantenere l’assedio per un anno intero. Gli yazidi rischiarono l’estinzione nel 1892, quando truppe ottomane penetrarono nella valle di Lalish, non distante dall’area investita dalla furia nichilista di al Qaida, e passarono a fil di spada migliaia di yazidi, distruggendo il mausoleo del profeta Adi, morto nel 1162. La presenza della comunità yazida in Mesopotamia è uno dei più grandi misteri della sopravvivenza. La loro lenta agonia uno dei capitoli più tragici della guerra terroristica contro gli “infedeli”. E’ il popolo più umile e silente del medio oriente, come dimostra il piccolo tempio di Bashiqa, dove il culto è amministrato dallo sceicco Ali Qawal Cholo. “La porta del tempio è bassissima perché l’uomo deve piegarsi per entrare, non può stare in piedi, deve essere umile”. Le stanze di culto yazidi sono oscure, le uniche decorazioni sono il sole, la luna e le stelle. Il professor Rasho ci spiega che “le organizzazioni islamiste hanno annunciato la nostra fine attraverso una serie di fatwe nei luoghi pubblici iracheni. Hanno detto che avrebbero eliminato gli yazidi. Molte fatwe sono state pubblicate sui loro siti Internet e distribuite nelle moschee irachene. E nelle città, soprattutto Mosul, dove gli yazidi rappresentano un terzo della popolazione. Siamo un facile obiettivo perché il governo ci ignora e le autorità curde non ci proteggono”. Molti yazidi sono riparati nella città curda di Ain Kawa. Qui il mullah Krekar prima del 2003 aveva imposto la chiusura dei negozi durante la preghiera, alle donne di indossare il burqa, bandì le parabole satellitari e la musica strumentale, eliminando le foto femminili da ogni prodotto importato. Oggi è in corso lo strangolamento della comunità yazida. A Mosul, la “città dei morti”, per mesi gruppi islamici hanno imposto e continuano a imporre la tassa sui “sudditi”, la celebre jiza, l’imposta abolita dall’Impero ottomano. “I non musulmani devono pagare il tributo al jihad se vogliono avere il permesso di continuare a vivere e professare la fede in Iraq” recita una fatwa. “Non possiamo muoverci, non possiamo mostrare i passaporti con la nostra identità, gli studenti non possono partecipare alle lezioni, i contadini non possono vendere i loro prodotti, i commercianti non possono investire” ci racconta Rasho. “La società civile yazida è poverissima, il sistema educativo allo stremo, non c’è sanità, la gente acquista acqua non pura, molte donne incinte sono morte prima di raggiungere gli ospedali. Quasi tutti gli intellettuali hanno lasciato l’area o sono emigrati altrove. Non c’è nessuna Ong qui e spero che le nazioni europee prestino attenzione a questa comunità antichissima. Che ci proteggano dallo sterminio”. “Loro vogliono distruggerci, vogliono uccidere tutti gli yazidi perché non sono musulmani” dice Abu Saeed, uno dei capi della comunità di Qatahnya colpita dall’attentato. “Un’altra bomba come quella e non ci saranno più yazidi” ha detto il vice primo ministro, il curdo Barham Salih. All’ingresso del villaggio devastato di Tel Azer, un manichino ricorda la devastazione. Ha indosso una t-shirt da bambino ed è stato eretto sulle macerie delle 800 abitazioni incenerite dall’esplosivo. Lo sceicco Baba, il 74enne capo religioso della comunità yazida, dice che “se continuano ad attaccarci così, ci finiranno del tutto”. Gli yazidi sono l’unico popolo che non ha mai dichiarato guerra a nessuno. Il loro sangue è gratis e disponibile. Un detto yazida di Faqir recita che “quando uccidi qualcuno, uccidi te stesso”. Ali Seedo Rasho è una specie di Ezechiele che piange l’agonia del proprio popolo. “Un ragazzo di 25 anni non può andare a dormire senza la madre vicino. Non sopporta più lo scoppio di una bomba. Un bambino di dieci anni non va al bagno senza la madre perché quando c’è stata la strage era solo e non sentiva più la sua voce. Io ho visto ragazze che non hanno più parlato o non hanno ancora raccontato ciò che è successo. Si sono risvegliate senza riuscire a dire cosa accadde quel giorno”
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