La sentenza francese sul caso Al Dura un articolo di Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 28 maggio 2008 Pagina: 2 Autore: Carlo Panella Titolo: «Dalla morte del piccolo al Doura è nata una generazione di shahid»
Da Il FOGLIO del 28 maggio 2008:
L’immagine è ancora impressa nella mente di tutti, anche se sono passati otto anni. Il disprezzo per chi ha provocato l’agonia di questo ragazzino palestinese di Gaza nelle braccia del padre è indelebile. Ma chi è il responsabile della morte di Mohammed al Doura? Una Corte d’appello francese ha appena emesso una sentenza: non è affatto vero, non è affatto assodato che la colpa sia stata dei soldati israeliani. Questo, invece, senza ombra di dubbio, aveva sostenuto il servizio mandato in onda il 30 settembre 2000 da France 2, ripreso da tutto il mondo. Il giornalista Charles Enderlin e il suo cameraman palestinese, Talal abu Rhama, avevano accusato Israele e avevano suffragato l’accusa con le immagini e con il commento. Senza dubbi. La Corte d’appello di Parigi ha svelato un trucco, gravissimo: dopo l’immagine di al Doura morto tra le braccia del padre, trasmessa da France 2, al Doura è vivo e sorride. Dunque France 2 ha barato, ma solo su quella sequenza? Philippe Karsenty, un reporter indipendente, nel 2006 ha accusato France 2 di avere manipolato l’intero servizio, in omaggio a una tesi antisraeliana preconcetta. Denunciato da France 2, in primo grado, nonostante il pm avesse appoggiato la sua accusa, Karsenty è stato condannato a pagare a France 2 la somma simbolica di un euro. Ma in appello, la settimana scorsa Karsenty è stato assolto, soprattutto perché France 2 è stata finalmente costretta a fornire alla Corte l’intero girato e il giudice ha potuto comprendere come e quanto il montaggio giornalistico ha manipolato la verità. France 2 è stata condannata a pagare le spese processuali. Dunque, chi ha ucciso Mohammed al Doura? Israele aveva subito dimostrato nel 2000 che al Doura e il padre erano nel raggio di tiro dei cecchini palestinesi e fuori dalla portata delle armi israeliane. Né France 2 né i media che avevano accusato Israele di quella morte hanno però mai dato notizia di questa smentita. Non è stata data neppure notizia del rifiuto dell’Autorità nazionale palestinese di eseguire l’autopsia sul bambino. Rifiuto inspiegabile, ma soltanto in apparenza. Palestinesi e israeliani usano armi diverse e l’autopsia avrebbe subito svelato il trucco. Nel maggio del 2003, la rivista progressista statunitense Atlantic Monthly ha pubblicato un report in cui dimostrava l’estraneità delle Forze armate israeliane, alla morte di al Doura. Di nuovo silenzio. Silenzio complice: il servizio di France 2 aveva già innescato una mostruosa concatenazione di effetti, un fenomeno mediatico letteralmente diabolico che ha fatto di Mohammed al Doura una straziante star del firmamento dei martiri palestinesi. Un testimonial dei kamikaze bambini. Col pieno appoggio di Yasser Arafat, della stampa palestinese e araba e con la complicità dei media politically correct del mondo, al Doura è servito a sovrapporre l’immagine della vittima – lui martire – a quella degli attentatori suicidi palestinesi che da quel momento in poi hanno cosparso di stragi Israele. Come ha raccontato ieri il Wall Street Journal, “due mesi prima Arafat aveva abbandonato i negoziati di Camp David, due giorni prima Ariel Sharon aveva visitato la spianata delle moschee, la Seconda Intifada stava per partire”. Non è ancora assodato che la storia di France 2 sia “una bufala”, dice il Wall Street Journal, ma la morte di al Doura contribuì a scatenare le violenze. Martire, in arabo, si dice shahid, ma ugualmente shahid vengono chiamati i kamikaze e così lo shahid al Doura è stato cinicamente usato come modello-traino, come prototipo televisivo dell’adolescente palestinese che sceglie la morte da shahid kamikaze, assieme a Wafa Idriss, la prima donna palestinese kamikaze (la sua vittima fu un anziano israeliano di 81 anni) e Ayyat al Akras, di 17 anni, che uccise un agente e una ragazzina di 17 anni come lei, Rachel Levy. Ignorata in occidente, questa campagna mediatica palestinese – innescata dal caso al Doura per convincere i ragazzini a diventare kamikaze, a frequentare i campi militari per kamikaze e andare a uccidere ebrei – è stata tanto martellante quanto efficace. Anche perché ha usato tecniche moderne, a partire dai videoclip, trasmessi sino al 2005 dalla televisione di Arafat. Nel videoclip su al Doura, trasmesso dalla televisione dell’Anp dal 25 dicembre del 2000 in poi, si vede un ragazzino che, ripreso da lontano, sembra in tutto e per tutto il piccolo al Doura. La prima scena contiene questo suo invito scritto: “Vi saluto non per separarci, ma per dire: seguitemi! Mohammed al Doura”. Poi, con tono dolce e accattivante, aulico, parte la calda voce del narratore: “Com’è dolce la fragranza dei martiri! Com’è dolce il profumo della terra: la sua sete è placata dal rivolo di sangue che sgorga dal tuo corpo di bimbo!”. Appare l’immagine bella e forte di una cantante palestinese rossa di capelli, dalla voce penetrante, ritmata, drammatica, sottolineata dai tamburi, che si rivolge al padre che ha cercato invano di salvarlo dalla morte : “Oh padre finché non ci incontreremo! Oh padre, finché non ci incontreremo me ne andrò senza paura, senza lacrime”. Con una serie lenta di dissolvenze l’immagine dell’eroe si presenta come deve essere, ora, dopo il martirio, nel Paradiso dei bambini. Il premio alla morte eroica in battaglia è stato riscosso dal piccolo al Doura che se ne corre, al rallentatore, come un fantasmino trasparente prima lungo una radura verde, circondata da dolci corolle di alberi, poi verso una moschea di al Aqsa stretta da profili neri a ricordare la consegna: morire per al Aqsa! Esplodere in aria per al Aqsa! Continuare l’Intifada di al Aqsa! Poi eccolo correre lungo una spiaggia percossa da possenti e amiche onde, che si muovono quasi a ritmo della voce e della musica: “Oh padre, com’è dolce la fragranza dei martiri! Andrò al mio posto in cielo. Com’è dolce la fragranza dei martiri!”. Poi, con tocchi di ingenuità popolana, si arriva al kitsch paradisiaco con boccioli di rose viola che si schiudono lentamente, quasi si struggessero per la vita di Mohammed; spine di grano ondeggiano al vento, con un effetto da spot pubblicitario; di nuovo onde e una luna grande, rotonda, brillante, ma seminascosta da nuvoloni neri neri, che sono la morte, poi ombre che si agitano, di nuovo radure in un Paradiso che assomiglia sempre più a un altopiano svizzero. “Com’è dolce la fragranza dei martiri, andrò al mio posto in cielo. Com’è dolce la fragranza dei martiri! Com’è dolce la fragranza dei martiri!”. Stacco duro e lo schermo si divide in verticale, riappare la bellissima cantante dai capelli rosso e dall’altra parte dello schermo ragazzi palestinesi in una misera strada che tirano sassi. “Oh padre finché non ci incontreremo! Oh padre, finché non ci incontreremo!”. Riappare il ragazzino fantasma, gioca con un aquilone. Il videoclip si dissolve. Elaborato il prototipo, la tv di Arafat è subito passata a propagandare gli attentatori suicidi, gli assassini, in particolare quella Wafa Idriss che tanta ammirazione aveva suscitato in Saddam Hussein per aver ucciso un vecchio ebreo. Nella trasmissione della tv dell’Anp in omaggio a Wafa del 12 maggio 2002 (più volte replicata), non vi è un solo cenno al gesto di Wafa, all’esplosivo, alle vittime, al corpo straziato del povero vecchio ebreo. E’ tutto un parlare poetico, aulico, eroico. Perché per dire “uccidete gli ebrei!” (non i soldati israeliani, neanche i coloni dei Territori, ma proprio gli ebrei, gli ebrei di Gerusalemme) in Palestina tutti sanno che ormai c’è un sinonimo. Basta dire un nome che non è più nome di donna, ma di un’arma: Wafa. Inneggiare a Wafa, incoraggiare le giovani palestinesi a seguire il suo esempio ha un unico scopo: trovare nuove giovani che si imbottiscano di esplosivo e vadano a farsi saltare in aria in mezzo a vecchi, ragazzine, bambini innocenti. La trasmissione ha del surreale: a partire dalla sigla, in cui il volto virato color seppia di Wafa Idriss dolce e sorridente con la kefiah campeggia in alto a sinistra, a fianco del logo con la moschea di al Aqsa. L’elogio alla strage, l’elogio all’assassinio di ebrei, si innalza da un proscenio hollywoodiano: Amal Maher, cantante egiziana bionda e sensuale, campeggia al centro di un’immensa orchestra di un teatro del Cairo dal proscenio degno del Carnegie Hall. Senso di lusso, cura professionale dello spettacolo in tutto e per tutto off Broodway: un centinaio gli orchestrali, coro di una cinquantina di elementi. Una mise en scène costosissima: la cantante Amal Maher che esalta la scelta omicida di Wafa è fasciata in un abito lungo di raso nero dai riflessi tenui, scollatura ampiamente offerta alla vista, spalle e braccia nude, ma sensualmente velate da un birichino tulle trasparente, ricamato con fiori neri. Canta, le mani quasi a pregare, la voce bella, l’obiettivo solo per lei, che muove le spalle, leggermente inarcate e fa mancare il respiro: “Sorella mia, Wafa! Sorella mia, Wafa! Oh pulpito d’orgoglio! Oh fiore che era sulla terra e ora è in cielo! Oh fiore che era sulla terra e ora è in cielo!”. Il suono melodico è attraversato dal ritmare pesante dei tamburi, che danno urgenza alle parole. “Sorella mia, Wafa! Sorella mia, Wafa! Oh pulpito d’orgoglio! Oh fiore che era sulla terra e ora è in cielo! Oh fiore che era sulla terra e ora è in cielo!”. Primo piano della cantante, strettissimo, si vede soltanto la scollatura velata e la testa, di profilo. La sua sensualità contenuta sale in un crescendo: “Sorella mia, Wafa!”. Ci spostiamo con lentezza sul coro che rappresenta il popolo che approva e segue la lode allo strazio della carne del vecchio ebreo innocente: “Allah Akbar! O Palestina degli arabi! Allah Akbar!”. Il rullare dei tamburi si fa frenetico, la voce del coro e quella della contante si fondono, si prendono, si lasciano: “O Wafa, ma tu hai scelto il martirio! Nella morte hai dato vita alla nostra volontà! Ma tu hai scelto il martirio! Nella morte tu hai dato vita alla nostra volontà!”. Canzone perfetta, frase perfetta, trionfo di una teologia della morte che, a lungo corteggiata da Arafat, trova oggi in Hamas il suo più forte presidio.
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