Unde malum Sergio Anelli
Aragno Euro 18
Un Appennino livido di notte e di paura. E, all’altro capo del mondo, la California, che dovrebbe essere progredita e gaia, ma non lo è, per lo meno non in questo racconto. Sergio Anelli descrive la storia del Novecento come una ferita che non riesce a rimarginarsi, né per quelli che cercano di dimenticare né tanto meno per coloro che dimenticare proprio non possono.
Unde malum si può definire un libro religioso, e non solo per il titolo, che fa risuonare l’antica domanda di Tertulliano e Agostino, ma anche per la ricerca non lineare di un nesso tra i molteplici volti del negativo: "Res ligo, - spiega infatti Sophie – significa legare le cose, gli argomenti, gli avvenimenti".
Anelli padroneggia tanto l’arte del racconto quanto quella del documento, così che la narrazione fa la spola tra le rappresaglie tedesche del 1944, a ridosso della linea gotica, e la quotidianità di uno scrittore ebreo scampato all’Olocausto, che proprio su quei massacri sta raccogliendo un dossier. L’intrecciarsi di diversi metodi espressivi e varie dimensioni temporali costruisce uno spazio in bilico tra memoria e attualità, che corrisponde bene all’ambiguità del protagonista assoluto del libro, quel male che – materializzandosi chissà da dove – s’impossessa dei luoghi e delle coscienze.
Le voci dei molti personaggi che popolano il racconto si susseguono in capitoli brevi, affastellandosi una sull’altra, togliendosi, per così dire, la parola di bocca. Lo stesso episodio si ripresenta spesso con lo scarto di pochi minuti, con una differenza di qualche grado di visuale, e pure con l’abisso psicologico che separa il partigiano dal prete, l’ufficialetto nazista dalla vecchia ignara, il testimone del lager dal vacuo, ma minaccioso negazionista. Altrettanto affastellati, contrapposti, angoscianti appaiono i simboli: la svastica, innanzitutto, quella "ruota primitiva, guerriera, che divorava con braccia geometriche il tempo", ora croce uncinata, che diventa "nemica della croce di Cristo". Il dolore si destreggia tra la paccottiglia simbolica del nazismo, con le rune e i vaneggiamenti neopagani delle SS, il cattolicesimo rassegnato dei civili italiani, e il giudaismo straripante di dubbi di Jsak, che arriva a parafrasare Schopenhauer: "Se un dio ha fatto questo mondo, io non vorrei essere quel dio".
La descrizione si raggruma talora in sintagmi di annientamento, in filastrocche malvagie: "Pezzi di pezzi. Cocci di cocci. Scaglie, tritume", o ancora " Terra tumefatta, pietra grigiastra, nausea maleodorante". Alla crudezza quasi insostenibile delle carneficine fa da sfondo una natura contaminata: "L’aria continuava a rimanere impura e le nubi ad avere sagome minacciose, inquiete, sghembe". Persino un dipinto s’inserisce nella storia con tormentata ambiguità: l’Isola dei morti di Bocklin, che era appeso alle spalle di Hitler e che ritorna a Berlino, dopo la guerra, per vie niente affatto rassicuranti.
"Donde proviene il male? Forse la materia di cui è costituita la creazione era una materia non buona, e Dio…vi lasciò una qualche parte che non convertì in bene?". Così Agostino, da vecchio manicheo ravveduto, non si dava pace. E nemmeno noi riusciamo a darcela.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore