Il fronte dell'appeasement con l'Iran va dall'Europa a Barack Obama
Testata: Il Foglio Data: 23 maggio 2005 Pagina: 1 Autore: la redazione Titolo: «Caro nemico, ti scrivo - I giorni dell'appeasement»
Dal FOGLIO del 23 maggio 2008, un articolo sulla politica estera di Barack Obama:
New York. Uno dei punti deboli di Barack Obama in vista della sfida di novembre per la Casa Bianca è la sua non ancora ben delineata dottrina di politica estera e, in particolare, la sua idea di incontrare i nemici dell’America entro il primo anno di presidenza. Una strada in salita per un giovane senatore democratico, sospettato di essere troppo elitario e radicale, che giudica “sottile” la minaccia iraniana e nordcoreana (salvo poi correggersi e dire che invece è “seria”) e che affronterà un eroe di guerra come il repubblicano John McCain. Tra l’altro non si è ancora ben capito se l’approccio di Obama sia “realista”, ma mitigato da dosi “idealiste” per scongiurare genocidi e crisi umanitarie, oppure se si tratti solo di posizionamento alla sinistra di Hillary Clinton per vincere le primarie di partito. Resta il fatto che all’idea obamiana di incontrare i nemici dell’America, McCain ci si è aggrappato e difficilmente mollerà la presa, anche se non potrà accusarlo di “appeasement” perché Obama non ha mai accennato a concessioni al nemico. Tutto è cominciato a luglio scorso. A un dibattito televisivo, Obama aveva detto che avrebbe incontrato i leader dei paesi nemici dell’America senza alcuna precondizione. Hillary Clinton, in diretta, gli ha risposto che si trattava di una posizione “pericolosa e ingenua”, una frase che da qui a novembre sarà ripresa spesso dai repubblicani. La cosa è stata liquidata come una gaffe dell’inesperto senatore e una prova della preparazione di Hillary. Senonché Obama ha (quasi) vinto le primarie democratiche e ora quella “gaffe” può diventare un pilastro della dottrina politica del nuovo presidente degli Stati Uniti. Il team di Obama ha provato a rimodulare la proposta, prima spiegando che il senatore non aveva mai suggerito “senza condizioni”, poi che non aveva mai detto esplicitamente di voler incontrare Mahmoud Ahmadinejad (“in Iran ci sono altri leader”). Obama ha cercato di spiegare che “senza condizioni” non vuol dire senza una precedente e accurata preparazione, ma che in ogni caso il punto centrale è ribaltare la fallimentare strategia bushiana. Anche i grandi presidenti del passato, ripete Obama, hanno incontrato i loro nemici, è questa la tradizione americana. All’inizio Obama citava Harry Truman, ma l’ex presidente democratico è più noto per aver sganciato due bombe atomiche sul Giappone, peraltro già sconfitto, e per aver invaso la Corea, più che per incontri col nemico. Franklin Delano Roosevelt, invece, non ha mai incontrato Adolf Hitler, anche se prima dell’ingresso in guerra ci sono stati colloqui e incontri diplomatici, come peraltro li ha oggi l’Amministrazione Bush con la Corea e con l’Iran, prima ufficiosi e poi formali. Roosevelt ha incontrato Stalin a Yalta, ma il dittatore georgiano era un alleato contro il nazifascismo, non un nemico. Le trattative per la missione di Nixon in Cina L’esempio di John Kennedy, ha scritto ieri il New York Times, dovrebbe far riflettere Obama, visto che l’incontro con Kruscev andò malissimo, al punto da aver convinto il capo sovietico a costruire due mesi dopo un muro al centro di Berlino. Ieri Karl Rove, sul Wall Street Journal, ha ricordato i duri mesi di preparazione e trattative orchestrate da Henry Kissinger prima di arrivare alla visita di Nixon in Cina, ma anche il fatto che Pechino aveva paura di un’invasione russa. Altri fanno notare che Ronald Reagan ha incontrato i leader sovietici sfidando apertamente “l’Impero del male”. La posizione incontrista di Obama ha convinto il portavoce di Hamas ad augurarsi una sua vittoria a novembre, costringendo il candidato a dichiarare nel modo più netto possibile che Hamas e Hezbollah sono “terroristi” con cui non si può discutere e, poi, a licenziare un suo consigliere in contatto con Hamas. Obama non ha spiegato quale sia la differenza tra il no, che prima era sì, ad Hamas e il sì all’incontro con i capi iraniani. McCain su questo punto ha la stessa posizione articolata da John Bolton sul Wall Street Journal: “Da una parte ci sono quelli che credono che le negoziazioni debbano essere usate per risolvere le dispute internazionali il 99 per cento delle volte. Dall’altra ci sono quelli come Obama che pare vogliano usare le trattative nel 100 per cento dei casi, ma trattare non è una strategia, è una tecnica, dire che uno è favorevole alla trattativa con l’Iran non ha contenuto intellettuale superiore a dire che è favorevole all’uso del cucchiaio. Per fare cosa? In quali circostanze? Con quali obiettivi ?"
La politica dell 'Europa verso l'Iran:
Roma. Parlare con il nemico, l’“appeasement”, “a volte serve, a volte no, a volte il non parlare si trasforma in appeasement”, spiega l’Economist in edicola oggi. Ogni caso ha la sua storia – che cosa sarebbe successo, si chiede il magazine britannico, se al posto di Chamberlain, nel 1938, ci fosse stato Churchill? – ma di certo il dialogo è una tattica, non un principio. Degli effetti di questa tattica bisogna tener conto nel momento in cui si decide una strategia, volta per volta. L’Europa ha una naturale propensione nel considerare l’“appeasement” un principio, una strategia sacrosanta a priori, forse – dicono gli storici – perché per secoli è stata in guerra con se stessa. L’europeo che dice “dialogo mai” è vissuto male, un corpo estraneo. Basta vedere che cosa è successo in questi anni con l’Iran. Dal 2003 la Repubblica islamica disattende sistematicamente le richieste della comunità internazionale sul suo programma nucleare. Dal 2005, con l’elezione di Mahmoud Ahmadinejad, lo fa senza dissimulare le sue intenzioni – cancellare Israele dalla faccia della terra – e anzi con una festa nazionale a ogni nuova centrifuga installata. Eppure, fino a poco più di un anno fa, cioè nel 2007, soltanto gli Stati Uniti del “falco” Bush avevano messo in campo misure sanzionatorie unilaterali. Ora Francia, Gran Bretagna e Germania (quest’ultima con qualche cautela in più rispetto agli altri) hanno adottato la “linea dura” cui anche l’Italia vuole accodarsi, come ha spiegato ancora ieri in un’intervista alla Stampa il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Ma il consenso su una strategia di tal fatta non è unanime. La linea trionfante nei consessi europei è quella di Massimo D’Alema o, anche se solo in parte, di Bernard Kouchner: il dialogo è la via preferenziale per ottenere la pace. Così l’ex capo della Farnesina ha passeggiato a braccetto con il leader di Hezbollah per le strade distrutte di Beirut e incassato il miglior risultato del suo mandato: la guida della missione Unifil nel sud del Libano. Così il ministro degli Esteri di Sarkozy ha confermato i contatti con Hamas, nonostante la linea ufficiale francese (ed europea) di chiusura nei confronti degli islamisti di Gaza. L’obiettivo è semplice: garantirsi la pace se non conclamata, almeno sul campo. Poi succede che in Iraq vengono rapiti due giornalisti francesi e il cuore dell’appeasement si spezza: ma come, colpiscono la Francia dopo la sua orgogliosa opposizione alla campagna irachena? Lo stupore dura pochi attimi, perché la convizione sulla bontà del dialogo è cementata. Abbastanza per andare orgogliosi di una stretta di mano all’Onu con Ahmadinejad.
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