Alla "Stampa" chi fa i titoli non legge gli articoli l'esempio di una cronaca di Francesca Paci dal Golan
Testata: La Stampa Data: 23 maggio 2008 Pagina: 18 Autore: Francesca Paci Titolo: «“Il Golan val bene la pace”»
“Il Golan val bene la pace” è il titolo della cronaca di Francesca Paci pubblicata da La STAMPA del 23 maggio 2008. L'articolo in realtà presenta le differenti posizioni dei coloni israeliani nel Golan, da quelli contrari alla cessione dell'altipiano alla Siria a quelli favorevoli. Il titolo, dunque, non rispecchia il contenuto dell'articolo.
Ecco il testo
Parlare con la Siria? A Katzrim, capitale verde del Golan, la risposta è affissa all'ingresso del centro commerciale Leu, un manifesto a caratteri cubitali come un editto medievale, «Ha'am im HaGolan», la gente sta con il Golan. Maria, la giovanissima commessa del negozio di fiori, 18 anni, originaria dell'ucraina, sintetizza l'umore locale con un'alzata di spalle: «Non ce ne andiamo neppure morti. Avete visto cosa è successo a Gaza dopo il ritiro? Olmert pensi ai suoi problemi». L'affondo del leader dell'opposizione Bibi Netanyahu è stato accolto con un'ovazione. «Sommerso fino al collo nelle indagini della polizia, il premier non ha alcun mandato per intraprendere un negoziato di importanza critica per lo Stato di Israele»: ben detto, Bibi. Damasco non ha aspettato ventiquattr'ore a rispedire al mittente la richiesta del ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni di tagliare i ponti con Hezbollah e Hamas. Ma anche quassù, tra gli irriducibili delle alture conquistate dall'esercito israeliano nel '67 e annesse 14 anni dopo in barba al dissenso internazionale, c'è chi dice no. No al muro contro muro, no al sacrificio della sicurezza nazionale per quella di 30 mila persone. Yigal Kipnis siede nella veranda della sua villetta in un moshav di Maale Gamla, tra la riserva di Yehudiya e il parco HaYarden: «Sono piccoli passi insignificanti, purtroppo. Finchè gli Stati Uniti seguiteranno con la politica di Bush la situazione resterà congelata». Dal 1995 questo ex ingegnere riconvertitosi all'agricoltura guida un ristretto gruppo di dissidenti disposti a cedere l'investimento di una vita per la normalizzazione dei rapporti con la Siria, il Golan on the Way to Peace, il Golan sulla via della pace. Fosse pure quella accidentata intrapresa dal governo Olmert con la mediazione di Ankara. «Sono arrivato da Haifa nel '78 con mia moglie, laureata in chimica, e il bambino piccolo», racconta Yigal. Sul grande tavolo di legno fatto a mano, il succo delle sue saporitissime mele. «Non avevamo motivazioni ideologiche come i coloni che s'insediano in Cisgiordania. Avevo 29 anni, sognavo di creare una nuova comunità, m'ispiravo al mito dei pionieri». La casa, oggi un'oasi idilliaca da cartolina, era all'epoca un rudere in pietra e fango secco con il tetto d'alluminio abbandonato dopo la guerra da una delle 800 famiglie siriane che abitavano nella zona. «Comprammo le mura, lo Stato ci aiutò con le infrastrutture». Intorno, al posto dell'attuale foresta di alberi di mango, una landa arsa dal sole. Fu la politica che il giovane Yigal aveva snobbato, a correggere la sua utopia. «Nel 2000, quando Barak avviò i colloqui con Bashar Assad, capii che era finita un'epoca». Non se ne fece niente, ma il 57 per cento degli elettori del Golan promosse il programma dell'allora primo ministro nonostante lo spettro del ritiro. Yigal srotola una mappa piena di linee tratteggiate, i confini del '69, la zona demilitarizzata, la strada per Damasco, distante appena 60 chilometri. Come se non bastassero la memoria e la geografia, spiega, ci si mette pure la geologia: «Negli ultimi quarant'anni il lago di Tiberiade si è ritirato di 15 metri, la vecchia rivendicazione di Hafez Assad padre, che fantasticava di tornare a immergere i piedi nell'acqua come faceva da bambino, è irrealizzabile nelle condizioni odierne. Il lago è ormai completamente in territorio israeliano». E pochi, in Israele, hanno voglia di sacrificare il bacino idrico che rifornisce il 30 per cento del Paese. L'unica soluzione sarebbe mollare tutto: «Potremmo fare del Golan una 'regione aperta', territorio siriano in cui però venire in gita senza bisogno del passaporto». I duri del kibbutz Geshur non ne vogliono sentire. «Non abbiamo paura di Olmert», ripete il segretario Ofer Zilberberg. Yigal Kipnis, a malincuore, concorda: «Il premier non riuscirà ad avviare alcun dialogo». Ma non si arrende: «Molti la pensano come me ma hanno paura». A lui hanno danneggiato l'automobile un paio di volte. Nei villaggi circostanti, Ramot, Had Nes, nel moshav che produce il ricercato vino Maor, è una grande trincea. La gente sta con il Golan. E la Storia?
Per inviare una e-mail alla redazione della Stampa cliccare sul link sottostante lettere@lastampa.it