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Il Foglio Rassegna Stampa
21.05.2008 In Afghanistan le forze tedesche sono paralizzate dalle regole d'ingaggio
ma ci sono anche buone notizie: i deobandi condannano il terrorismo

Testata: Il Foglio
Data: 21 maggio 2008
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Un capo talebano si fa beffe delle forze tedesche imbrigliate dai caveat -Dalla culla dei Talebani, i saggi dell’islam rigettano il terrorismo»
Dal FOGLIO del 21 maggio 2008:

Kabul. Venerdì scorso un intero battaglione di fanteria corazzata ad Augustdorf ha messo su una esercitazione-spettacolo davanti al capo di stato maggiore tedesco, Hans Otto Bude. Obiettivo: esibire la bravura dei soldati nella cattura di terroristi. Il settimanale Der Spiegel racconta che le cose in Afghanistan non vanno come in addestramento. A marzo le Ksk, le forze speciali di Berlino, hanno scoperto le tracce di un bersaglio grosso, un alto comandante talebano, vicino alla città di Pol e Khomri. Secondo i servizi segreti si tratta di un ricercato tra i più pericolosi della regione: ha collegamenti importanti con le cellule terroriste oltre il confine, in Pakistan, organizza attentati con trappole esplosive lungo le strade, ospita e smista gli attentatori suicidi prima dei loro attacchi. C’è lui dietro l’attentato a Baghlan del 26 novembre scorso: quel giorno una bomba è esplosa all’inaugurazione di una fabbrica di zucchero nel nord est del paese, una cerimonia simbolica per celebrare la ripartenza economica del paese. Le biglie d’acciaio incorporate nell’esplosivo hanno fatto strage, hanno ucciso sei parlamentari arrivati in delegazione dalla capitale e hanno falciato decine di bambini, in prima fila per vedere l’evento. L’attacco ha ucciso 79 persone e ha inorridito il paese a tal punto che i talebani non hanno osato fare seguire una rivendicazione ufficiale (i guerriglieri usano spesso tattiche disumane, ma tentano di non farlo sapere per evitare contraccolpi d’immagine. Venerdì hanno mandato a morire contro una pattuglia canadese un bambino di 13 anni carico di esplosivo: nella rivendicazione hanno negato, sostenendo che di anni ne avesse 23). I soldati speciali del reparto tedesco hanno seguito il ricercato per settimane. Hanno studiato le sue abitudini e i suoi comportamenti: quando usciva di casa e con chi, di quanti uomini si circondava e come erano armati, il colore del suo turbante e i veicoli a sua disposizione. Alla fine di marzo si sono mossi per prenderlo. Protetti dal buio, vestiti di nero, con visori notturni, gli uomini del Ksk sono avanzati verso il covo assieme a soldati delle forze afghane. Come per i colleghi del reggimento Sas britannico, o della Delta Force americana, l’incursione e la cattura (o l’eliminazione) di un leader nemico è un’operazione per cui i soldati d’élite tedeschi sono specificamente addestrati. Le sentinelle talebane li hanno scoperti, il capo talebano ha cominciato a scappare. I commandos non hanno più avuto la possibilità fisica di ammanettarlo, ma avevano ancora quella di colpirlo. Non l’hanno fatto. Le regole d’ingaggio dei tedeschi in Afghanistan sono diverse da quelle di americani e inglesi. Un documento segreto, circolato in ambito Nato, chiarisce che i militari di Berlino “possono usare forza letale soltanto se un attacco è in corso o è imminente”. Lo stragista di Baghlan ha cambiato covo. “I crucchi – dice un incredulo ufficiale inglese sentito dallo Spiegel – lasciano che la gente più pericolosa scappi via, così aumenta il pericolo per tutti, afghani e forze straniere”. Non c’è soltanto questo caso di attrito tra tedeschi e altri contingenti: recentemente sono arrivati a dare aiuto in battaglia agli alleati Nato con una settimana di ritardo, nel settore sotto la responsabilità degli italiani. Per questo Washington insiste da due vertici Nato sulla revisione urgente delle regole d’ingaggio, che sono considerate controproducenti. E ora pure l’Italia dice di essere disponibile ad aumentare il numero di truppe

Il pronunciamento deobandi contro il terrorismo

Roma. Per fare un esempio della loro influenza: il venti per cento dei musulmani che abitano in Gran Bretagna dicono di seguire gli insegnamenti deobandi, il nome della piccola città indiana dove i Talibani hanno studiato e dove si trova la seconda università islamica più grande del mondo. L’importanza della scuola deobandi è pari se non superiore a quella di Al Azhar, “la Radiosa”, l’università islamica del Cairo. Quelle deobandi non sono scuole militari. Sono scuole di sola religione. Vi si entra all’età di cinque anni. Se ne esce, in genere, attorno ai venticinque. A parte la matematica, e un po’ di logica aristotelica mutuata da Avicenna, vi si insegna solo il Corano e l’idea del ritorno alla purezza delle origini. Le scuole deobandi cercano di purificare l’islam purgandolo dalle influenze degli ultimi secoli, e facendolo tornare ai testi base del Corano e degli Hadith (i detti del Profeta). Alcuni studiosi paragonano il passatismo della scuola deobandi a quello della settecentesca setta wahabita, che impronta l’islam puro e duro dell’Arabia saudita e dei Fratelli musulmani egiziani, quella a cui si è formato Osama bin Laden. Altri azzardano invece una comparazione con la Riforma protestante del XVI secolo in Europa. Un ritorno alle Sacre scritture contro la corruzione di Roma moderna era anche quello di Martin Lutero. Quando i chierici deobandi promulgano una fatwa o forniscono il governo di pareri religiosi, la notizia finisce sulle prime pagine dei principali quotidiani di tutto il mondo. E così è avvenuto anche ieri, con la Bbc che lanciava il manifesto contro il terrorismo emanato dai chierici di formazione deobandi. Il quotidiano israeliano Haaretz ha notato giustamente che “è la prima volta in 150 anni che la scuola ospita una conferenza contro il terrorismo”. Il Darul Uloom è il consiglio dei religiosi musulmani che interagisce anche con i governi locali su questioni che hanno a che fare con l’islam. Secondo il Wall Street Journal, nel mondo islamico è in corso una storica “rivolta dei saggi”. L’ex assistente di Bush Peter Wehner sul Financial Times scrive che “nel corso degli ultimi mesi si è aperto un nuovo e decisivo fronte nella lotta contro il terrorismo, guidato da prominenti chierici islamisti”. E’ in questo solco che va interpretata la campagna contro la violenza e l’odio lanciata dalle moschee dell’Utter Pradesh. Il 25 febbraio scorso la scuola deobandi di Darul Uloom aveva proclamato che il terrorismo è “non islamico”. “Quando gli imam fanno i loro sermoni nelle preghiere del venerdì, devono mettere in guardia i musulmani dal terrorismo” ha spiegato Maulana Khalid Rasheed, fra i promotori del Movimento contro il terrorismo nato dopo la pubblicazione della fatwa contro la violenza di febbraio. Una simile iniziativa è stata annunciata anche dal governo iracheno, che ha autorizzato le forze di sicurezza a inviare i loro agenti nelle moschee per monitorare i sermoni del venerdì. Il governo ha anche dato l’ordine per impedire che dei predicatori senza preparazione possano pronunciare sermoni al fine di evitare che vengano fatti discorsi che possano incitare alla violenza. Se avrà un seguito, l’iniziativa dimostra ancora una volta che la scuola giuridica deobandi ha una matrice hanafita ben diversa dai wahabiti che sono di scuola hanbalita, più rigorista. Fra le due correnti c’è poi la differenza non da poco del culto delle tombe dei santi, praticato dai deobandi e giudicato eretico dai sauditi. Da Fadlallah allo sceicco saudita A febbraio seimila studiosi delle scuole deobandi si sono ritrovati a Darul Uloom per siglare un manifesto ispirato dal maulana Marghoobur Rahman, il quale ha detto che “il terrorismo è contrario agli insegnamenti dell’islam”. Il Times di Londra ha parlato del “coraggio deobandi”, chiedendosi però anche quanto davvero influenzeranno le menti dei terroristi. Che non fosse una cerimonia di facciata lo si capisce anche dal fatto che vi abbiano partecipato religiosi della setta moderata Barelvi, della scuola Nadwatul e dell’ordine sufi, tradizionalmente contrari e perseguitati dai jihadisti. Nella dichiarazione si diceva che “uccidere una sola persona è come uccidere l’intera umanità, senza distinzione di credo e di casta”. Anche se non menzionati specificatamente, si accusava anche gli Stati Uniti di colonialismo verso il mondo musulmano. Il rettore di Darul Uloom (Casa della conoscenza) Rahman ha anche spiegato che “noi crediamo nel versetto coranico che dice che prendere una vita innocente equivale a distruggere il mondo intero”. A siglare il manifesto contro il terrorismo è stato anche il religioso sciita Maulana Kalbe Jawwad, fra i principali in Asia: “Gli attacchi suicidi uccidono innocenti e l’islam proibisce queste attività. Non riesco a capire come le istituzioni abbiano autorizzato fatwe che rendono attraenti queste azioni, realizzate in India ma anche in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan”. Il proclama deobandi e le iniziative sulle moschee seguono la fatwa dello sceicco Abd Al-‘Aziz bin Abdallah Aal Al-Sheikh, la più alta autorità religiosa in Arabia Saudita, in cui ha proibito alla gioventù saudita di dedicarsi alla jihad in terra straniera. Qualche settimana più tardi anche Mohammed Hussein Fadlallah, massimo religioso della comunità sciita libanese, ha pubblicato una fatwa in cui si proibisce di compiere azioni armate contro civili. “Noi vietiamo gli atti barbari contro innocenti che non hanno alcun rapporto con le rivendicazioni dei terroristi”, si dice nell’editto. “Non si tratta di operazioni di martirio ma di barbari azioni suicide che porteranno per chi le compie soltanto la punizione divina”, aggiunge il testo. Tutto il mondo musulmano, conclude lo sciita Fadlallah, deve “condannare questi atti odiosi che sono contrari alla religione islamica”.

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