Da AVVENIRE del 21 maggio 2008, l'ennesimo articolo sull'"assedio" di Gaza. che non spiega, per esempio, che Hamas ha colpito con un attentato il deposito carburante di Nahal Oz, dal quale Israele invia i rifornimenti e che attacca i convogli di rifornimenti costringendoli a tornare indietro (come denuncia l'autorità palestinese del petrolio).
Ecco il testo:
F inora c’era rimasta almeno l’aria da respirare. Adesso ci stanno togliendo anche quella » . Impreca e tossisce il vecchio Ghassam, curvo sul suo bastone, mentre osserva il fumo nerastro e nauseabondo che esce da un auto sul viale Omar alMuhtar. Da quando il governo israeliano ha deciso di tagliare i rifornimenti di carburante, per rappresaglia ai continui lanci di razzi dalla Striscia di Gaza, la gente ha iniziato a mettere nel serbatoio l’olio usato per cuocere i falafel (le polpettine di ceci) invece del gasolio.
Il traffico, un tempo caotico, si è drasticamente ridotto ma l’inquinamento è altissimo. Scendi in strada e ti senti immerso in una friggitoria, avvolto da un odore acre che brucia in gola e toglie il respiro. Molti girano con mascherine di tela che coprono naso e bocca, mentre in ospedale sono centinaia i ricoveri per difficoltà respiratorie e infezioni polmonari. Alla lunga, dicono i medici, la tossicità dell’aria potrebbe provocare un drastico aumento dei casi di tumore.
Sempre più lugubre e deprimente, Gaza affronta l’ennesimo giro di vite dell’embargo imposto da Israele con un rimedio che è peggiore del male, sprofondando nel disastro umanitario. Da tempo questa striscia di sabbia e di miseria con la densità abitativa più alta del mondo (un milione e mezzo di persone in 360 kmq) è una prigione a cielo aperto, con l’esercito israeliano che ha sigillato le frontiere e mantiene chiuso per i palestinesi il valico di Erez, una barriera di cemento, filo spinato e sofisticate apparecchiature di controllo. L’assedio si è fatto più duro da quando, nel giugno scorso, i fondamentalisti di Hamas hanno preso il potere cacciando i rivali di al- Fatah, rompendo con l’Anp del presidente Abu Mazen e alzando il livello di scontro con «l’entità sionista».
Alla pesante offensiva militare dello Tsahal che solo nell’ultimo anno ha provocato 454 morti, in gran parte civili, si è aggiunto il progressivo inasprimento del blocco economico, fino alla sospensione quasi totale delle forniture di carburante ed energia. La benzina entra col contagocce, il 15 % rispetto al fabbisogno, ed al mercato nero un litro costa 25 shekel (5 euro). L’unica centrale elettrica funziona a singhiozzo perché manca il gasolio che viene da Israele, i black-out sono frequenti, i depuratori sono fermi e sul lungomare dove giocano i bambini l’olezzo di fogna è insopportabile.
A Sudanya uno dei quartieri più poveri di Gaza City, c’è una lunga fila di ragazzi in attesa di riempire la bombola di gas. «Siamo qui da cinque giorni, anche di notte» dice Faisal che mantiene l’ordine. Dietro di lui s’alza un grido: «È tutta colpa di Hamas ».Viene subito zittito dai compagni: «Cosa dici, è colpa d’Israele». Finora non ci sono state proteste an- ti-governative ma cresce il malumore tra la gente.
Potrebbe esplodere fino a far cadere il governo? «La popolarità di Hamas resta elevata ma potrebbe subire dei contraccolpi se continua questa terribile situazione – è la risposta di Omar Shaban, l’economista che dirige il centro studi «Pal-Think» –. Escludo però una rivolta di massa. La storia c’insegna che l’embargo economico non ha mai funzionato contro i governi, ha solo fatto soffrire la popolazione civile». Shaban snocciola dati impressionanti: ogni attività produttiva è morta, la disoccupazione è al 60%, ed anche i dipendenti pubblici fanno fatica a ricevere un salario perché il governo, boicottato dall’Occidente, può contare solo sull’appoggio di Siria e Iran.
Secondo la Banca Mondiale, nel 2000 il 30% delle famiglie di Gaza erano sotto la soglia di povertà, ora sono il 74%. Senza l’aiuto alimentare dell’Onu morirebbero di fame. «Forniamo il minimo essenziale ad un milione di persone ma incontriamo sempre più difficoltà a causa del blocco israeliano. La scarsità di carburante tocca anche noi, i nostri programmi sono a rischio», ammette sconsolato Hamada al-Bayari, uno dei coordinatori degli aiuti umanitari dell’Onu. L’anno scorso le Nazioni Unite hanno sborsato 200 milioni di dollari per mantenere in vita Gaza, quest’anno ne occorrono 500. Solo interventi d’emergenza, i finanziamenti su progetti (agricoli, industriali, edilizi) restano bloccati. Nel porto israeliano di Ashdod 1800 container provenienti dall’Europa sono fermi da mesi. Un anno fa a Gaza entravano 750 camion di merci al giorno (del tutto insufficienti), oggi ne passano 60, quando va bene.
Anche il sistema sanitario rischia il collasso. Israele permette solo il passaggio di medicinali. «Se un macchinario si rompe non possiamo ripararlo o acquistarne uno nuovo, abbiamo 1500 pazienti in lista d’attesa per un intervento chirurgico all’estero, ci vogliono settimane e mesi per strappare un permesso. L’anno scorso 152 malati gravi sono morti per mancanza di cure adeguate. Manca spesso l’elettricità e le nostre riserve per il generatore autonomo sono ormai al minimo», dice Sami Hassan, direttore dell’ospedale civico «Shifa». Che conclude polemicamente: «A che serve quest’accanimento contro i più deboli?».
Chiusi in trappola, ai palestinesi di Gaza non resta che scavare tunnel sotterranei a Rafah, lungo il muro di confine con l’Egitto, abbattuto a gennaio dalla furia popolare e già ricostruito. Da qui passa ogni tipo di merce, a cominciare da armi ed esplosivi. Ad « Hamasland » non c’è benzina, scarseggiano i viveri ma abbondano kalashnikov e razzi Qassam. Così muore Gaza, vittima e complice di una tragedia che l’Occidente preferisce ignorare.
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