Israele porrà fine all'aggressione terrorista da Gaza intervista di Francesca Paci a Ehud Olmert
Testata: La Stampa Data: 21 maggio 2008 Pagina: 8 Autore: Francesca Paci Titolo: «La sfida di Olmert: Gaza, la nostra»
Da La STAMPA del 21 maggio 2008, un'intervista di Francesca Paci al premier israeliano Ehud Olmert
È un atleta allenato, Ehud Olmert. Uno che a 62 anni corre dieci chilometri in un'ora e rimpiange quando, un paio di stagioni fa, c'impiegava appena 45 minuti dribblando il traffico di Gerusalemme. Il primo ministro israeliano sorride, ma è provato e stavolta non per i suoi cinque figli, una adottiva. L'accusa di corruzione, lo spettro di nuove Map in cui rischia di annegare con il presidente palestinese Abu Mazen, Gaza, il elezioni, la palude della Road tumore alla prostata: le ultime due settimane sono state dure. «Mi tengo in forma» scherza, seduto nel suo ufficio, alla Knesset, per l'intervista con La Stampa. Completo blu, camicia bianca con le iniziali rosa, cravatta regimental. Nella libreria la foto della moglie Aliza e una pila di saggi di storia contemporanea, «Israel» Now di Lawrence Meyer, «Cold Warrior», «The Hoffa Wars», una biografia di Ataturk. Il 2008 è cominciato in salita. È pronto allo sprint finale, l’intesa con i palestinesi entro la fine dell'anno? «Da quando sono premier non corro più come vorrei, troppe persone intorno, sicurezza, controlli. Ma vado in palestra ogni giorno. Al di là delle metafore, quello di primo ministro d'Israele è un lavoro tosto. Non che governare l'Italia sia facile, richiede concentrazione, presenza, fermezza. Qui però è un'altra cosa». Perché? «Ci sono due differenze tra me i miei colleghi. La prima è che Israele è un Paese minacciato sin dall'inizio. Siamo circondati da nemici, Hamas, la Siria, l'Iran, e chissà quante cellule di al Qaeda in Asia, Sudamerica, Africa. L'altra è che qui il premier porta sulle spalle secoli di storia ebraica e ogni decisione riguarda tutti gli ebrei in tutte le parti del mondo. È una responsabilità pesante. Personalmente mi rilasso con il calcio, la mia passione. Ma non sarà molto rilassante seguire la partita tra il Manchester, che amo da 50 anni, e il Chelsea guidato dal mio amico Avram Grant. Sento spesso Avram, ci confrontiamo volentieri sulle analogie tra allenare una squadra e guidare un Paese». Governare Israele non è mai stato facile, ma nel suo caso, sin dal Libano, il percorso sembra davvero accidentato. «La guerra in Libano è stata un successo per Israele, in 30 giorni abbiamo ottenuto pace, sicurezza, deterrenza. Da quando ce ne siamo andati ed è arrivata la forza internazionale non è più stato sparato un proiettile contro di noi. Hezbollah si è riarmato, d'accordo. Ma lo stesso avviene a Gaza con l'aggiunta di una salva quotidiana di missili. Se oggi qualcuno promettesse agli israeliani due anni senza una sola pallottola da Gaza al prezzo di 30 giorni non sono certo che rifiuterebbero». Dopo due anni di embargo a Gaza il vostro soldato Shalit è ancora prigioniero, Sderot è martoriata dai missili, Hamas resta al potere, la comunità internazionale biasima Israele per l'assedio che riduce i palestinesi allo stremo. È ancora la tattica giusta? «Israele ha lasciato Gaza oltre due anni fa: il fallimento politico che è seguito ricade sui palestinesi. Continuo a ritenere giusta la decisione del ritiro. Il problema dei razzi richiederà tempo, non si risolve in una notte. All'epoca della seconda Intifada ero sindaco di Gerusalemme e ricordo bene gli attentati, i morti. Eppure ne siamo usciti. Dateci tempo, troveremo il modo. La nostra forza è la nostra debolezza. Siamo disciplinati, non uccidiamo civili, o almeno ci proviamo, e quando sfortunatamente non riusciamo, chiediamo perdono. I terroristi invece colpiscono deliberatemente i civili, si muovono nello spazio di confine tra gli standard morali, la disciplina e il nostro potere militare». Il ministro della difesa Barak minaccia da tempo un'operazione su vasta scala a Gaza. Anche Lei sembra persuaso della necessità di un intervento. È così? «La situazione è intollerabile, ne abbiamo abbastanza. Arriva il momento di dire basta. E questo momento è sempre più vicino. Faremo di tutto per evitare di coinvolgere la popolazione». Sta prospettando un'invasione? «Non ho parlato d'invasione. Ho detto che il punto di saturazione è vicino. Non permetteremo che questa situazione continui». Il ministro degli esteri francese Kouchner parla di «contatti» con Hamas. Se il leader di Hamas Haniyeh le telefonasse risponderebbe? «La differenza tra filosofi e politici è che loro possono fantasticare, noi no. Haniyeh non chiamerà e non dovrò decidere se rispondere. Haniyeh non riconosce Israele e non vuole la pace». Eppure attraverso la mediazione dell'Egitto Israele sta dialogando con Hamas. L'ha confermato il vicepremier israeliano Ramon. «Noi non negoziamo con Hamas. Alcuni interpretano erroneamente i nostri contatti con gli egiziani. L’Egitto è un partner importante in questo triangolo, è preoccupato che i palestinesi sconfinino da Gaza e del potere di Hamas, ed è interessato al dialogo». A che punto sono i colloqui con l'Autorità Nazionale Palestinese? «Siamo in corsa contro il tempo. Se Gaza non si quieta minerà la capacità di israeliani e palestinesi di fare pace. C'è da cogliere l'opportunità mentre Bush, un presidente entusiasta, è ancora in carica. La scorsa settimana, qui a Gerusalemme, gli ho regalato una mountain bike e ci è saltato sopra felice come un bambino. Dopo di lui chissà quanto ci vorrà per ricominciare con il successore, ammesso che il Medio Oriente sia ancora una priorità». Se i colloqui falliscono cosa accadrà a Fatah, il partito del presidente Abu Mazen? Hamas trionferà anche in Cisgiordania? «È il pericolo che voglio evitare. Ma so di avere poco tempo». Secondo molti scarcerare il leader di Fatah Marwan Barghouti sarebbe l'unica chance per evitare l'espansione di Hamas. «Immaginiamo solo virtualmente che Barghouti venga rilasciato domani: saprebbe provare ai suoi che non è un collaboratore di Israele? Temo che l'unica via per dimostrarlo sarebbe agire in modo più estremista di questa leadership. Non vedo come potrebbe essere utile. Senza contare che sta scontando 5 ergastoli». Il presidente palestinese Abu Mazen viene giudicato debole e si è parlato dell'ipotesi che possa dimettersi nel giro di sei mesi. «Preferisco non pensare in questi termini, spero che il dottor Abu Mazen resti: magari tra sei mesi saremo tutti in condizione diversa. Nei nostri colloqui privati, a quattr'occhi, la distanza tra noi si è colmata in questi mesi. Voglio andare avanti, anche a costo di pagare un prezzo politico. Se riuscirò ad accordarmi con Abu Mazen su un'equa soluzione "due Stati", compresi i rifugiati e condizioni di sicurezza permanente per Israele, ci saranno grandi opportunità per noi e per i palestinesi». Non ha citato gli insediamenti israeliani, che crescono a dispetto dei colloqui di pace, e il futuro di Gerusalemme. «Non voglio entrare nei dettagli. La condizione di Gerusalemme dovrà essere discussa e concordata. Ma non penso che potremo raggiungere un'intesa definitiva in questo periodo di tempo». Ha grandi progetti, ma gli israeliani si chiedono se dovranno tornare alle urne. La sua coalizione sopravviverà? «Quello giudiziario purtroppo, è un problema che molti primi ministri d'Israele hanno fronteggiato di recente. Tutti quelli che sono stati indagati hanno continuato a lavorare. Guardo i miei amici Tony Blair e Berlusconi che hanno affrontato difficoltà simili. Berlusconi non ha mai smesso di occuparsi dell'Italia, è sempre rimasto al suo posto. Le persone come noi, con queste esperienze, con tanti rivali, devono concentrarsi sulle cose importanti. Risponderò alle accuse e sconfiggerò i miei nemici». L'ultimo libro di David Grossman, «Until the End of the Land», affronta l'angoscia segreta degli israeliani, la paura di sparire. Un tema presente anche in «Fuoco amico» dello scrittore A.B. Yehoshua. Molti israeliani hanno il doppio passaporto, pronti a fuggire. È il tramonto del sogno sionista? «I 60 anni d'Israele sono una vittoria storica. L'Europa si appresta a cancellare i confini nazionali per diventare un grande continente. La storia degli ebrei invece, dimostra che la sola garanzia d'esistenza è avere uno Stato. Le abbiamo provate tutte. Aver costruito Israele è un miracolo. Grossman e Yehoshua sono scrittori famosi, premiati. È giusto che raccontino paure, emozioni. Io però, da politico, sono molto più fiducioso». Cosa si aspetta dal nuovo governo italiano di Silvio Berlusconi? «Già, quando viene Silvio? Ha promesso che il suo primo viaggio sarà in Israele. Anche Prodi però era mio amico, un gentiluomo, abbiamo lavorato insieme sin da quando era presidente della Commissione Europea. Certo, l'approccio politico generale del suo governo era diverso, Silvio guarda il mondo in un altro modo, ha un'altra visione dell'Iraq e della minaccia iraniana. Ci sono buone chance che le relazioni tra i nostri Paesi continuino a crescere. Peccato che il Milan non vada tanto bene adesso, Avram Grant mi dice sempre che ammira moltissimo Berlusconi per come ha preso una squadra malmessa e ne ha fatto una stella. Se è riuscito nel calcio riuscirà anche come primo ministro».
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