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Il Manifesto Rassegna Stampa
15.05.2008 "Diritto al ritorno", e fine di Israele
la linea politica del quotidiano comunista

Testata: Il Manifesto
Data: 15 maggio 2008
Pagina: 9
Autore: Michelangelo Cocco
Titolo: «Sessant'anni di Israele vissuti nel suo «lato B»»
Un articolo, pubblicato dal MANIFESTO del 15 maggio 2008,  per sostenere il "diritto al ritorno" in Israele dei profughi arabi della guerra del 48, scatenata dagli agli arabi per distruggere Israele.
"Diritto al ritorno" che implicherebbe la fine di Israele come Stato ebraico.

Ecco il testo:


Ammar Hussein Abu Mahmoud se le ricorda tutte le tappe della fuga che 60 anni fa lo portò da Egzem a Jenin. «Egzem-Haifa, Haifa-Carmel, Carmel-Kfar Kara, Kfar Kara-Ara, Ara-Al Ajan, Al Ajan-Jenin», ripete sciorinando nomi di città e villaggi assieme ai grani del rosario islamico che tiene tra le dita. Un tragitto lungo un anno per scappare, a piedi, dall'avanzata delle truppe della Haganah che, in guerra contro gli eserciti arabi all'indomani della proclamazione dell'indipendenza d'Israele, conquistavano territori ben al di là di quelli assegnati allo Stato ebraico dalla partizione della Palestina prevista dalle Nazioni unite con la risoluzione 181.
Hussein Abu Mahmoud riuscì a raggiungere Jenin con la fidanzata e attuale moglie Hamami, ma strada facendo dovette separarsi da cinque fratelli e tre sorelle, che trovarono rifugio in Iraq, Siria, Libano, Giordania, Kuwait. «A Egzem coltivavo orzo e grano. La mia era una vita felice. Qui, dopo un mese di cammino, mi ritrovai a dormire in scuole e moschee», racconta questo 77enne dal viso emaciato e gli occhi vispi incorniciati da una spessa montatura tartaruga.
Il campo di Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata, è a due passi dalla frontiera tracciata dopo l'armistizio del 1949, la Linea verde all'interno della quale le truppe d'occupazione israeliane e i circa 450.000 coloni della Cisgiordania dovrebbero ritirarsi per adempiere alle risoluzioni internazionali. La maggior parte dei 15.496 profughi ufficialmente residenti è originaria di Haifa e dei villaggi vicini alla città portuale. Le facciate delle case piene di fori di proiettile e gli striscioni con Saddam Hussein - che imbraccia un lanciarazzi Rpg o stringe la mano ad Arafat - ricordano che Jenin è una delle località più militanti e martoriate della Cisgiordania.
Nel 1948 la Brigata Carmeli riuscì a strapparla solo per dieci giorni alle truppe irachene. In due settimane, dal 3 al 18 aprile del 2002, i soldati che l'ex premier Sharon aveva mandato ad assediare la roccaforte palestinese dalla quale erano partiti decine di attentatori suicidi per far strage in Israele, devastarono il campo (150 edifici distrutti e 27 milioni di dollari di danni secondo l'Onu) e fecero un numero imprecisato di vittime civili (tra le 50 e le 150, a seconda delle fonti) ma persero 23 uomini e si attirarono la condanna internazionale per la brutalità dell'intera operazione «Scudo difensivo» con cui, pochi giorni prima, era cominciata la rioccupazione delle principali città palestinesi.
Sulle macerie di Hawashin, il quartiere del campo completamente distrutto durante l'invasione del 2002, ora sorgono palazzi a tre piani dalle facciate color crema. Si prova a ricominciare da capo. Come 60 anni fa, quando l'arrivo della Croce rossa permise la registrazione dei rifugiati e la distribuzione di pane e latte. L'Unrwa iniziò a operare solo il 1 maggio del 1950. Ci fu chi nelle tende allestite dall'Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati rimase anche quattro anni. Hussein Abu Mahmoud no. Lui mostra fiero la casa che subito iniziò a costruire con le sue mani e che negli anni ha allargato per destinare ai figli le nuove stanze.
La Naqba (catastrofe) - la distruzione di oltre 400 tra città e villaggi e l'esodo di 750.000 palestinesi durante il conflitto arabo-israeliano del 1948 - cambiò la vita di Hussein Abu Mahmoud, che fece di necessità virtù e s'improvvisò fabbro, costruendo soprattutto lampade a olio, richiestissime per la mancanza di elettricità nei primi anni dopo il 1948.
La famiglia di Hussein - come le altre 392 classificate «casi di particolare necessità» - riceve ogni tre mesi la razione di aiuti dell'Unrwa: tre chili di zucchero, altrettanti di riso, due litri d'olio, uno di latte in polvere, trenta chili di farina e dieci dollari a testa. «Nel campo non c'è lavoro, le nostre giornate sono scandite dai pasti e dal sonno: viviamo in gabbia», lamenta la figlia Shamia, seduta alla sinistra del vecchio. Dietro di loro, sulla parete, il ritratto incorniciato di una delle decine di vittime dell'Intifada, che i palestinesi chiamano shahid, martiri: il figlio Mahmoud, un miliziano delle Brigate dei martiri di Al Aqsa ucciso dall'esercito israeliano nel 2004, quando aveva 26 anni.
Abbandonata nel limbo dell'esilio da oltre mezzo secolo, la folla di parenti e amici seduta sui tappeti del soggiorno attorno al patriarca non spera nell'aiuto di nessuno: né degli Stati uniti o della Gran Bretagna «che hanno sempre aiutato solo Israele», né dei governi arabi. «Non importa se siamo più deboli degli israeliani, abbiamo fede nei nostri diritti e in Allah: l'Hezbollah libanese ci ha dato l'esempio da seguire», esclama un cognato di Hussein. Tutti annuiscono convinti.
Hussein nel 1987, in occasione d'una visita a uno zio che viveva ancora ad Haifa, tornò per un giorno ad Egzem. Al posto del suo villaggio però trovò un insediamento israeliano di cui non ricorda il nome: «La moschea e la vecchia scuola sono ancora lì, così come la mia casa, occupata non so da chi». Per Hussein il sionismo significa semplicemente che «gli ebrei vogliono tutta la nostra terra. Noi palestinesi vogliamo la pace con gli ebrei, ma nelle nostre terre e nelle nostre case».
Dall'apertura degli archivi militari a metà degli anni '80 del secolo scorso, l'opera dei «nuovi storici» ha portato il dibattito sulla Naqba anche all'attenzione dello Stato ebraico. Studiosi come Ilan Pappé, Avi Shlaim e Benny Morris hanno contribuito a incrinare uno dei miti fondanti del sionismo, quello secondo cui Israele sarebbe stato fondato su «una terra senza popolo, per un popolo senza terra».
A questa presa di coscienza non è corrisposto alcun passo avanti nell'esercizio del diritto al ritorno da parte dei profughi (sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite) che, con i loro discendenti, hanno raggiunto quota 4,5 milioni e il cui possibile rientro Israele descrive come un tentativo di distruzione dello Stato ebraico. I rifugiati di Jenin, che vivono in condizioni sempre più precarie, però lo reclamano con forza.
«Grazie ai nostri 55 assistenti sociali riusciamo ad aiutare solo i più poveri tra i poveri» - spiega Najwa Abu Elheija, direttrice dei servizi sociali dell'Unrwa per il campo. «La situazione si è fatta drammatica da quando, con l'inizio della seconda Intifada, Israele impedisce ai palestinesi di andare a lavorare nello Stato ebraico». «Oltre alla disoccupazione - continua la donna - il problema principale è rappresentato dalle condizioni psicologiche dei bambini, costretti a vivere in un posto dove l'esercito compie irruzioni quotidiane, perquisendo le case e facendo uscire in strada anziani, donne e bambini, nel cuore della notte». A dare lavoro sono le Nazioni unite e l'Autorità palestinese, ma la metà della forza lavoro, che prestava servizio a giornata in Israele, è rimasta fuori dal mercato.
Ogni famiglia ha avuto il suo lutto, anche quella di Ibrahim, un operatore dell'Unrwa. Suo fratello, membro delle Brigate Al Aqsa, è stato ucciso dai soldati dieci mesi fa. Una settimana dopo avrebbe compiuto 21 anni. In cima a una delle salite del campo spunta il «Cuneo Center for peace», una struttura per bimbi e ragazzi inaugurata il 10 marzo scorso grazie ai finanziamenti della città piemontese. A mostrare i computer e le stanze nuove di zecca è il padre di Ahmad Khatieb, un dodicenne morto tre anni fa nel corso di scontri a fuoco nel campo. Aveva in mano un mitra giocattolo che i soldati scambiarono per vero: gli spararono alla testa e al tronco. Ismail decise di donare gli organi di suo figlio, che hanno ridato la vita a sei israeliani: ebrei, arabi e drusi.
All'ingresso del campo spicca il «Cavallo di Jenin», una scultura di Thomas Kilpper fatta con lamiere di metallo prese da automobili e case distrutte dall'esercito israeliano. I profughi di Jenin sono come Ismail, capaci di gesti di grande generosità, ma anche come Hussein, indisponibili a dimenticare i propri diritti. Un popolo tanto testardo che quel cavallo colorato, a ben guardarlo, sembra un mulo.

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