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La Stampa Rassegna Stampa
15.05.2008 Sciiti in pellegrinaggio in Israele
sfidano l'ira dei proprio governi, per visitare la moschea che ospitò la testa del terzo imam

Testata: La Stampa
Data: 15 maggio 2008
Pagina: 13
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Il viaggio segreto degli sciiti in casa del nemico»
Da La STAMPA del 15 maggio 2008

Moshe si china a raccogliere un foglio di carta solitario portato qui dal vento: «Fosse sempre così, come sulla collina di Hussein, fare le pulizie nel parco dell'ospedale Barzilai sarebbe una passeggiata». Gli ultimi fedeli, una quarantina di pakistani, sono venuti qualche settimana fa con due pullman dell'agenzia turistica israeliana che organizza il pellegrinaggio «clandestino». Le donne velate e vestite di celeste, gli uomini in bianco. Sono rimasti mezz'ora, come al solito. Hanno pregato, prostrati in direzione della Mecca, hanno lavato il marmo bianco del tempio sciita e si sono rimessi in viaggio attraverso la Giordania alla volta di Islamabad, dove anche solo nominare Israele può costare caro. Moshe li ha visti e li hanno visti, dalla finestra, le donne ricoverate al reparto maternità. Compatti, silenziosi, quasi immateriali. Qualcuno aveva in mano l'immagine di Khomeini, la stessa guida spirituale degli ayatollah iraniani che armano le milizie di Hamas e della Jihad Islamica e la loro guerra allo Stato ebraico, un fronte distante meno di dieci chilometri da qui.
L'unico santuario sciita in Israele, come dire un interista a Milanello, si trova nell'ospedale di Ashkelon, qualche isolato a nord del centro commerciale Hutzot, dove ieri un razzo Katiuscia lanciato da Gaza ha ferito 20 persone, quattro in modo grave.
«Sembra incredibile ma è vero: nove, dieci volte l'anno, gli sciiti vengono a pregare ad Ashkelon, una delle quattro tappe verso il cielo, secondo la mitologia musulmana, insieme a Medina, Mecca e Damasco», spiega il professor Ron Lober, vicedirettore del Barzilai, il medico che sette anni fa autorizzò la costruzione del piccolo tempio sulla collina. All'ombra di palme antiche e cascate gelsomini, i musulmani indiani, pakistani, afghani, s'inchinano alla terra che custodì la testa del profeta Hussein, figlio di Ali, genero di Maometto, terzo degli imam storici, massacrato con il suo esercito a Kerbala nel 680 d.C. dal califfo omayyade Yazid.
La storia, racconta il dottor Lober, inizia all'indomani del martirio di Hussein, l'Ahsura, il terremoto che divide per sempre i musulmani sunniti dagli sciiti, quando «la testa del nipote di Maometto, infilzata in una spada, viene portata da Kerbala nella grande moschea di Damasco». Per duecento anni migliaia di pellegrini invadono la capitale siriana, finchè gli Abassidi, per ragioni di ordine pubblico, decidono di dislocare «le reliquie». Il teschio finisce così ad Ashkelon, «già all'epoca estrema periferia dell'impero». Passano altri due secoli e i Fatimidi egiziani, la dinastia araba sciita discendente da Fatima, la figlia di Maometto, i più tolleranti verso ebrei e cristiani, riscoprono la collina di Hussein: «Secondo la leggenda, il generale Bardul Jamali arriva ad Ashkelon nell'XI secolo e comincia a pregare sulle alture finchè la terra si apre miracolosamente e svela il sepolcro del Profeta». Il resto è l'Abc dell'archeologia orientale: Jamali costruisce una moschea, la più bella del mondo musulmano, e Salah ad-Din la distrugge nel 1153 per evitare che cada nelle mani dei crociati. Il pulpito si trova oggi nella grotta dei Patriarchi a Hebron mentre il sarcofago che conteneva la testa di Hussein è custodito al Cairo.
L'ufficio di Ron Lober si affaccia sul lato settentrionale del Barzilai, dove dovrebbe sorgere a breve un padiglione dotato di rifugio antiaereo per 240 persone, il primo nell'indifesa città di Ashkelon. Il santuario sciita è dalla parte opposta, immerso nel parco: «Quando cominciarono i lavori per l'ospedale, nel 1961, la collina di Hussein era identica alle altre. Periodicamente arrivavano pellegrini musulmani e si mettevano a pregare in giro, nomadi della fede, un po' disorientati». Un giorno, nell'estate di dieci anni fa, si presenta un religioso, Siydna Mohammed Burahanuddin, sultano fatimide originario dell'India musulmana. Ron Lober lo ricorda come fosse qui, ora: «Era vestito come un re. Chiese di salire sulla collina e scavare in un punto preciso. Io ero scettico ma lo autorizzai. A un metro di profondità il piccone trovò un'ostacolo durissimo, l'angolo della moschea di Hussein».
Nel 2001 mister Burahanuddin comincia a costruire il santuario, una piattaforma di una decina di metri per dieci in pregiatissimo marmo bianco di Agra, lo stesso del Taj Mahal. E mentre il presidente iraniano celebra i sessant'anni d'Israele ribadendone il destino segnato, «una nazione odiata da tutta la regione», centinaia di musulmani sciiti affrontano ogni anno l'ira dei propri governi, che non hanno rapporti diplomatici con lo Stato ebraico, pur di pregare mezz'ora sui resti del Profeta Hussein. Raccomandazioni in arabo indirizzate all'Altissimo e coperte dal fischio sinistro della sirena, l'allarme rosso che annuncia l'arrivo di un razzo Qassam.
Moshe lancia un'ultima occhiata al tempio, «scommetto che pochi israeliani conoscono il segreto del Barzilai». L'ospedale non vuole pubblicità, ammette il dottor Lober: «Non vogliamo passare alla Storia come l'ospedale che cura i feriti dei razzi Qassam e ospita una moschea sciita». Il cielo che grava la Terra Santa, è attraversato da un lampo, profano.

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