Hemingway e la pioggia di uccelli morti Boris Zaidman
Traduzione di Elena Loewenthal
Il Saggiatore Euro 16
Boris Zaidman, classe 1963, è un figlio dell’ex Unione Sovietica. Da bambino ha vissuto in una casa statale, in una città moldava passata dopo la Seconda Guerra mondiale sotto il dominio russo. Nel ’75, a 13 anni, insieme al padre e alla madre ha firmato un documento in cui rinunciava a tutto (cittadinanza, eredità, passaporto) per lasciare l’Urss e raggiungere Israele. Una nuova patria in cui nessuno, magari durante una partita di calcio, l’avrebbe più chiamato “giudeo”. La storia di quella partenza e di quell’arrivo, della nostalgia e della ricchezza insite nel trascinare con sé due lingue e due mondi (i classici russi e i racconti di Hemingway in valigia), Zaidman le racconta nel suo esordio, che lui definisce “un raro esempio di letteratura postsovietica scritta in ebraico”.
Israele è stata all’altezza delle vostre aspettative?
“Oggi un israeliano su sette proviene dall’ex Unione Sovietica, ma l’immigrazione recente non ha lo stesso carico emotivo di quella degli anni Sessanta. Allora arrivare in Israele significava lasciare un regime per una società democratica, andare a Ovest. E liberarsi dall’idea, a noi ben chiara, di essere una “minoranza”. Io ero ragazzo e vissi tutto come un’avventura. Mia madre si adattò subito. Mio padre non riusciva ad accettare l’idea che Israele non fosse la patria perfetta”.
Vivendo in Urss, il suo alter ego Tolik non aveva mai sentito parlare di Shoah. Cosa vuol dire ricordare per le nuove generazioni d’Israele?
“Come a Tolik, a scuola in Moldavia mi venne solo insegnato che molti ebrei, come i russi e gli ucraini, erano vittime dei tedeschi. In Israele ovviamente si impara fin dall’asilo che cos’è la Shoah. Molti considerano la nostra un’ossessione. Ma credo tocchi a noi tener vivo il ricordo a monito di tutti”.
Nel romanzo tiene la questione israelo-palestinese ai margini. Come mai?
“Focalizzarsi su Israele come luogo d’immigrazione ha l’effetto di farlo apparire un Paese normale, alle prese con nuovi cittadini venuti da lontano. Era ciò che volevo. Il conflitto israelo-palestinese è una sorta di malattia cronica, ma nel frattempo noi viviamo, come tutti, concentrati sulle nostre speranze e ambizioni”.
Lara Crinò
Donne – La Repubblica