Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
L'Italia resta in Libano, non cambia le regole d'ingaggio e continua a considerare Hezbollah un "partito come gli altri"
Testata: La Repubblica Data: 14 maggio 2008 Pagina: 13 Autore: Vincenzo Nigro - Francesca Caferri Titolo: «La Russa: Resteremo in Libano senza cambiare le regole della missione - Con Hezbollah parliamo ogni giorno»
Vincenzo Nigro intervista il ministro della Difesa italiano La Russa sulla missione Unifil in Libano
ROMA - L´Italia rimarrà nella missione Unifil in Libano, non chiederà di cambiare il carattere dell´operazione che rimane centrale per gli interessi di sicurezza italiana. È questo l´orientamento più importante che emerge da questa intervista al nuovo ministro della Difesa Ignazio La Russa. La questione nata in campagna elettorale era se fosse necessario modificare le "regole di ingaggio" per permettere a Unifil di incalzare più duramente Hezbollah nel Sud Libano. Risponde La Russa: «Non è urgente parlare delle regole di ingaggio, visto che non è un problema solo dell´Italia, e anzi continuare a parlarne potrebbe essere un errore. In Libano non ci sono situazioni di accresciuto allarme, i nostri soldati oggi fanno esattamente quello che facevano un mese fa, per il momento non vedo particolari ragioni per una radicale modifica di obiettivi e natura della missione. Voglio ancora completare la fase di acquisizione di informazioni, anche con una visita in Libano, ma questa è l´idea che mi sono fatto. Neanche le parti in causa ci chiedono una modifica della missione, e anzi tutti ci manifestano apprezzamento per l´equilibrio e la capacità professionale dei militari di Unifil». Signor ministro, qualcuno in campagna elettorale vi ha suggerito di rinunciare alla guida di Unifil, di ritirare i nostri soldati. «Questa in Libano è l´operazione delle Nazioni Unite in cui l´Italia ha assunto un ruolo propulsivo decisivo. Questo in qualche momento può anche aver irritato qualcuno: non possiamo rinunciare ad esercitare il nostro ruolo di equilibrio e di responsabilità, che se svolto bene accresce le possibilità di moderazione in tutto il Mediterraneo. È un ruolo che va iscritto completamente a merito delle forze armate italiane, e anche alla volontà quasi concorde del Parlamento italiano, che a suo tempo votò la missione con l´eccezione della sinistra radicale. Noi allora eravamo all´opposizione, facemmo prevalere l´interesse nazionale a qualsiasi interesse partigiano. La missione Unifil quindi rimane, e spero che su questo il Parlamento confermi il suo sostegno. Anzi, prima di partire per il Libano vorrei avere un contatto con la responsabile delle politiche di Difesa per l´opposizione - chiamarla "ministro ombra" mi fa un po´ ridere - per informarla della mia attività». Altra missione, quella di addestramento delle forze armate irachene. «Anche in questo caso ci muoveremo in stretto spirito di continuità con la natura delle missioni italiane, che sono state sempre decise con il nostro concorso. Quindi non c´è bisogno di cambiare idea su nulla. Naturalmente dobbiamo seguire l´evolvere della situazione: noi speriamo che presto in Iraq siano in grado di fare da soli, ma questo momento non è ancora arrivato». Afghanistan: il ruolo italiano è molto più centrale, abbiamo la responsabilità della zona di Herat. La Nato continua a chiedere altri soldati, ma chiede anche di migliorare la qualità dell´azione di assistenza alla ricostruzione del Paese. «Forse è difficile dire che non ci sia proprio nulla da cambiare. Dobbiamo cercare di passare da una fase prettamente militare a una fase che consolidi più velocemente il processo di ricostruzione del Paese. L´obiettivo è la rinascita dell´Afghanistan: e allora oltre a garantire i mezzi necessari al contingente per poter operare efficacemente dobbiamo capire come migliorare con i nostri alleati questo processo». La Difesa come tutti i settori dello stato, ha problemi micidiali di bilancio. Giulio Tremonti all´Economia, in questo palazzo, viene ricordato come un ministro terribile. «E lo sarà di nuovo, ma io mi sto preparando. L´Italia non deve trascurare il suo strumento militare. Dobbiamo consolidare questa risorsa per la politica del Paese, investendo quello che è necessario. Il bilancio della Difesa è carente non solo nel settore degli investimenti, ma anche in quello delle spese per il personale, io ne sono convinto e cercherò di ragionare con i miei colleghi. Sono sicuro che questi concetti verranno condivisi da tutti, a partire dal ministro dell´Economia». Quale sarà il coinvolgimento delle forze armate nelle operazioni di sicurezza interna, di polizia? «Molte volte la Difesa ha contribuito alla sicurezza interna. L´operazione Vespri siciliani, Forza Paris in Sardegna, l´operazione Domino dopo l´11 settembre. Ma bisogna capire quali sono gli spazi che competono alle forze armate per la sicurezza interna. È lecito chiedere alle forze armate in alcuni casi di contribuire a queste missioni, ma credo che una certa tendenza a utilizzare i soldati come manovalanza di lusso non sia corretta. Se c´è bisogno di un contributo preciso, allora sarebbe meglio individuare un ruolo, magari marginale, ma non da comprimari. Siamo pronti a discuterne, con l´avvertenza che non si può militarizzare il tema della sicurezza nazionale». Un uomo di destra, per la prima volta alla Difesa. «Voglio dire solo una cosa: io credo ancora nell´importanza che possono avere le forze armate nella crescita delle nuove generazioni. Negli Anni ‘70 venivamo perseguitati dal ritratto caricaturale che si faceva delle forze armate. Oggi i valori dell´esercito, di solidarietà, di lealtà, di partecipazione vengono riconosciuti assieme al concetto di Patria. Le cose cambiano. Sono contento che anche Veltroni facesse suonare l´Inno nazionale. Adesso però dovrebbero imparare le parole!».
Inevitabile per il contingente italiano in Libano parlare con Hezbollah e considerarlo un partito politico come tutti gli altri. Lo dichiara a Francesca Caferri il generale Paolo Ruggiero, capo del contingente italiano di Unifil.
Ecco il testo:
TIBNIN - Fuori dai cancelli della base italiana di Tibnin, da qualche mese nuovi poster hanno affiancato quelli di Hassan Nasrallah. Vicino al volto sorridente del numero Uno di Hezbollah è comparso quello di Imad Mughniyeh, il capo militare del movimento, ucciso a febbraio da un´autobomba nel centro di Damasco. Alla loro presenza i militari italiani sono abituati, così come a trattare con esponenti del partito di Nasrallah. «Con gli uomini di Hezbollah noi parliamo tutti i giorni, è inevitabile qui», racconta il generale Paolo Ruggiero, capo del contingente italiano di Unifil (2900 uomini su 13mila in totale, il raggruppamento nazionale più ampio fra quelli schierati nelle fila delle Nazioni Unite nel sud del Libano). Da sette mesi questo napoletano dall´aria schietta vive a Tibnin, sede del comando italiano di Unifil, circondato da un mare di bandiere gialle e verdi di Hezbollah e dalle foto dei "martiri" del Partito di Dio, che occupano ogni strada nel sud del Libano. Dal suo ufficio Roma sembra lontana milioni di miglia: quasi naturale dunque che le parole del ministro degli Esteri Franco Frattini - che due giorni fa ha annunciato che l´Italia non dialogherà con Hezbollah o con i palestinesi di Hamas - qui arrivino ovattate. «Credo che si riferisse alle alte sfere diplomatiche - dice il generale - noi non possiamo che considerare Hezbollah come un partito politico rappresentato in parlamento. Se i suoi rappresentanti vincono in modo democratico le elezioni locali noi dobbiamo relazionarci con loro, così come con i sindaci di Amal (l´altro partito sciita, ndr) o con quelli eletti nelle comunità cristiane. Parlare con i leader locali fa parte del nostro lavoro». In questi giorni Tibnin sembra un´oasi felice rispetto al resto del Libano. Nelle strade del villaggio, come a Tiro, la città più grande della zona, la vita scorre come sempre: i negozi sono regolarmente aperti, gruppi di anziani fumano il narghilé, nugoli di motorini impazzano. I blindati con la bandiera delle Nazioni Unite passano e nessuno si volta a guardarli, tanto la loro presenza è diventata abituale. Un altro mondo per chi arriva da Beirut, dove neanche l´annuncio che l´esercito userà la forza contro chi prenderà di nuovo in mano le armi è riuscito a vincere la paura della gente. Il ciclone che ha colpito il paese si è fermato a nord del fiume Litani, complice la composizione religiosa del sud, abitato al 90% da sciiti e per questo, da sempre, roccaforte di Hezbollah. «Non abbiamo avuto nessun impatto significativo - conferma Ruggiero - c´è stata qualche sporadica manifestazione il giorno dello sciopero generale, ma nulla più. Le attività sono proseguite in modo normale e non abbiamo elevato il livello della sicurezza». Sarà la soddisfazione di aver contribuito a rendere più tranquilla quella che due anni fa era la zona più difficile del Libano, o solo il sapore del prossimo rientro a casa - fra pochi giorni la brigata Ariete cederà il posto alla Garibaldi dopo sette mesi di servizio - ma qui a Tibnin le polemiche sulla possibilità di cambiare le regole di ingaggio di Unifil che a Roma hanno accompagnato il cambio del governo sembrano non sconvolgere i militari: «In base al mandato delle Nazioni Unite lo scopo della missione è quello di impedire atti ostili fra Israele e il Libano: se questo è il nostro compito le regole vanno benissimo - conclude Ruggiero - lo dimostra il fatto che da quando siamo qui non ci sono stati incidenti significativi e che la missione ha consentito all´esercito libanese di entrare in un territorio dove era assente da decenni. Non vedo nulla da cambiare. Se si decidesse di passare da peacekeeping a peacenforcing (ovvero non vigilare sul rispetto della pace, ma imporla con la forza, ndr) allora avrebbe senso parlare di azioni militari dirette. Ma sarebbe un´altra missione. E occorrerebbe ricominciare tutto daccapo».