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Il Foglio Rassegna Stampa
14.05.2008 Europa e paesi arabi: impotenti di fronte all'avanzata dei pasdaran
articoli di Rolla Scolari e Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 14 maggio 2008
Pagina: 1
Autore: Rolla Scolari - Carlo Panella
Titolo: «Sauditi contro l’Iran che sostiene “il colpo di stato di Hezbollah" -A Beirut ora comandano i pasdaran. Ma l’Europa (e la Francia) che fa?»

Dalla prima pagina del FOGLIO del 14 maggio 2008, una corrispondenza di Rolla Scolari:

Beirut, dalla nostra inviata. L’Arabia saudita accusa l’Iran di appoggiare “il colpo di stato di Hezbollah”. “Certamente sostiene quello che sta accadendo in Libano, un golpe – ha denunciato il ministro degli Esteri del regno, Saud al Faisal – Ci saranno conseguenze sulle relazioni con i paesi arabi”. Il paese sembra sempre di più la Striscia di Gaza. Non quella del giugno del 2007, quando Hamas prese il potere con le armi. Prima. Nel gennaio 2007, il gruppo del presidente palestinese Abu Mazen, Fatah, e il movimento islamista combattono quotidianamente e sul terreno restano decine di miliziani, soprattutto tra le file del partito del rais, appoggiato dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale. L’apice arriva il 25 gennaio, quando nel campo profughi di Jabaliya, a nord della città di Gaza, un leader delle Forze esecutive di Hamas è ucciso da una bomba a lato della strada, fatta detonare al suo passaggio. L’episodio rende le battaglie tra le parti ancora più violente. A fronteggiarsi nelle strade di Gaza ci sono le Forze esecutive e il braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzeddine al Qassam, contro le Forze di sicurezza preventiva di Fatah, la Guardia presidenziale, gli uomini vicini a Mohammed Dahlan e anche parti delle Brigate al Aqsa. La polizia sceglie di rimanere neutrale, per minimizzare le perdite. Hamas combatte seguendo un piano d’attacco, quello che poi riutilizzerà a giugno quando conquisterà la Striscia: prende alcune postazioni, uccide uomini importanti, ma si ferma sempre senza portare a compimento una vera e propria conquista. Fatah perde uomini, la sua inferiorità militare è ogni giorno più palese. Entra a questo punto in campo l’Arabia Saudita. Riad si propone come mediatore tra le parti, che fanno molta fatica a trovare qualsiasi tipo d’intesa, anche la più debole. Poi, l’8 febbraio, alla Mecca, attraverso la mediazione araba, si arriva a un compromesso per la formazione di un governo d’unità nazionale. Sembra a tutti, in un primo momento, la fine delle battaglie, ma è in realtà il punto di partenza di una successiva esplosione di violenza più intensa. Hamas ha prevalso sul campo con le armi. La sua superiorità militare e le vittorie ottenute gli garantiscono di trarre tutti i benefici dall’accordo rivelando così la sconfitta anche politica dei rivali: il movimento ottiene nove ministri, compreso quello dell’Interno, centrale nel controllo delle forze armate e della sicurezza. più il premier, Fatah sei poltrone. Inoltre, il rais Abu Mazen nella lettera indirizzata a Ismail Haniyeh con cui lo incarica della formazione del governo, chiede al gruppo “il rispetto” dei precedenti accordi siglati tra Autorità nazionale palestinese e Israele, non l’accettazione, come vorrebbe la comunità internazionale. A Beirut si aspetta proprio in queste ore l’arrivo di una delegazione della Lega araba per iniziare negoziati che vorrebbero portare alla formazione di un governo d’unità nazionale. Qui come a Gaza il Partito di Dio ha vinto sul campo con le armi senza però portare a termine un coup militare completo. Per ora è soltanto parziale: il movimento ha consegnato le aree conquistate a un esercito “neutrale”. Ma ha già annunciato che se il premier Fouad Siniora, appoggiato dall’occidente, non accoglierà le richieste di Hezbollah e non si dimetterà, le violenze proseguiranno. Le ultime zone a essere interessate dalle battaglie sono state le colline che circondano la capitale, alcune cittadine druse sulla via di Damasco, il villaggio misto sciita e druso di Choueifat, a undici chilometri da Beirut. Ieri, il centro abitato era deserto, i negozi chiusi, per strada i segni degli scontri: i vetri in frantumi delle automobili parcheggiate in strada, i cassonetti della spazzatura rivoltati. Lungo la via principale molti edifici sono mangiati dai colpi di fucile di un’altra guerra, quella civile del 1975-90. I segni dei proiettili recenti si riconoscono dai pezzi d’intonaco per terra. Sui muri delle case ci sono già le foto dei martiri delle due parti. La bella villa del sindaco è stata presa di mira dai lanciarazzi, il piano più alto è annerito dal fumo di un incendio e l’uomo e la sua famiglia non sono rintracciabili. Hezbollah ha avuto la meglio anche qui come a Beirut ma ha già consegnato il bottino all’esercito libanese che adesso pattuglia le strade del villaggio. Se nei prossimi giorni ci saranno consultazioni politiche il gruppo avrà sicuramente l’ultima parola: come in ogni guerra è il vincitore a portarsi a casa i dividendi maggiori. E Hezbollah ha già ottenuto la riabilitazione del capo della sicurezza aeroportuale, rimosso dall’incarico dal governo la settimana scorsa perché troppo vicino al partito. Se un ipotetico futuro esecutivo d’unità nazionale non dovesse funzionare, come non ha funzionato quello palestinese, la prossima volta il Partito di Dio potrebbe decidere di tenersi le zone conquistate, come a Gaza.

Da pagina 4, l'analisi di Carlo Panella:

Il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, propone di risolvere lo stallo armato in Libano con l’aiuto di negoziati in Francia. Buona proposta, ma in controtempo. Ormai la Siria è stata cacciata dal paese soltanto per lasciare spazio all’Iran, che ora gode di una sorta di continuità territoriale fino al confine libanese con Israele. E’ ben difficile non dare ragione al giornale di regime siriano al Baath, che ha salutato il fallito tentativo “di cogliere di sorpresa, con un piano ideato a Washington, le forze patriottiche dell’opposizione guidata da Hezbollah”. E’ andata esattamente così, solo che il tentativo di ridimensionare Hezbollah non è stato suggerito al governo di Fouad Sinora da Washington, ma da Riad, che lo ha spinto a una vera e propria dichiarazione di guerra quale era il silenziamento del nevralgico apparato di comunicazione militare di Hezbollah, e poi, come sempre è successo negli ultimi anni, ha sbagliato tattiche e alleati. Talché, alla resa dei conti, Fouad Siniora ha dovuto prendere atto che la colonna portante di tutto il progetto saudita, quel capo dell’esercito che doveva diventare presidente della Repubblica, il cristiano Michel Suleiman, messo nella necessità di scegliere tra Fouad Siniora (e Arabia Saudita) e Nasrallah (e Siria-Iran), non ha esitato, ha disobbedito al suo premier, ha annullato –senza averne potere – i suoi ordini, ha rimesso in funzione il sistema di comunicazione di Hezbollah e ha anche rimesso al suo posto il generale comandante dell’aeroporto di Beirut che Siniora aveva allontanato. La crisi dunque è stata fatta scoppiare da Siniora (in pieno raccordo con Ryad) ed è stata catastroficamente persa da Siniora. Lo schema, si badi bene, è maledettamente simile a quello dei precedenti fallimenti dell’azione saudita in Palestina (e anche in Iraq). Se si guarda a Hamas e a Gaza, se si guarda ai rapporti tra Abu Mazen (che è sulla identica piattaforma politica di Fouad Siniora) e Hamas (alleato formale di Hezbollah), si scopre che Riad ha più volte incitato il primo a tentare il contropiede a Gaza (tramite Mohammed Dahlan) con il risultato disastroso che tutti ricordiamo. Venerdì scorso, Riad ha però dovuto prendere atto di qualcosa di ben più grave dell’avere sbagliato nel riporre fiducia in Michel Suleiman, quando l’ha indicato come presidente della Repubblica (peraltro sempre boicottato da Hezbollah nelle votazioni). Ha dovuto constatare che l’egemonia politica di Hezbollah, cioè di Teheran di cui Hezbollah è propaggine, è tale in Libano che neanche un generale cristiano che non ha nessuna simpatia per Hezbollah (ed è provato), nel momento in cui deve decidere se sparargli o arrenderglisi non ha dubbi e si arrende. Riad, Fouad Siniora e soprattutto l’occidente devono registrare dunque la pessima notizia che la massa critica del campo della rivoluzione islamica iraniana è talmente forte che nessuno intende opporglisi in campo musulmano. Nasrallah è un mediocre politico e ancor più mediocre tattico – come sostengono da anni i suoi stessi padrini di Teheran – ma è uno eccellente demagogo che ha le spalle coperte da un formidabile apparato militare: i pasdaran iraniani (inclusi i killer che Michel Suleiman ha sicuramente ben presente). Ora, la situazione in Libano è in bilico. Scontri si sono scatenati anche dentro la comunità drusa a riprova della capacità di Teheran (e Damasco) di esercitare egemonia su forze non sciite (Hamas non sciita, così come cristiano è il generale Aoun, candidato di Hezbollah alla presidenza e sunniti sono molti alleati libanesi di Nasrallah). Ma il vantaggio dell’iniziativa è passato – grazie all’incauta mossa di Riad e di Fouad Siniora – a Hezbollah, che lo capitalizzerà. Forse, ora che si è sbilanciato a favore di Hezbollah, il generale Michel Suleiman potrà riproporre la sua candidatura e potrà essere eletto presidente del Libano. Il bizantinismo della politica libanese è parossistico e tutto può avvenire. Quello che è certo è che il fronte antisiriano ha dimostrato una volta di più di essere numericamente maggioritario ma politicamente chiuso nell’angolo dal 14 febbraio 2005. Piccolo specchio dell’evidente paralisi politica dei due più grandi paesi arabi, Arabia Saudita ed Egitto che, pur rendendosi perfettamente conto del pericolo dell’espansione della rivoluzione islamica iraniana, nulla riescono a fare per contrastarla. Finora i disastrosi fallimenti di Re Abdullah e di Hosni Mubarak (e del suo “mitico” capo dei servizi segreti Omar Suleiman) hanno posto tutte le premesse perché il disastro Gaza si replichi in Libano

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