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La Stampa Rassegna Stampa
09.05.2008 La demografia di Sergio Della Pergola, la vita a Sderot di Avirama Golan
dalla Fiera del libro di Torino

Testata: La Stampa
Data: 09 maggio 2008
Pagina: 0
Autore: Francesca Paci - la redazione - Avirama Golan
Titolo: «Grande Israele ? L'utopia è finita - La forza dei numeri con Lerner e Nirenstein - Un anno a Tel Aviv come se fossero sei»
Da La STAMPA del 9 maggio 2008, un'intervista di Francesca Paci a Sergio Della Pergola:

La forza dei numeri è la stessa della goccia cinese che pian piano scava la più dura delle rocce». Il professor Della Pergola siede nel salotto dell'appartamento di gusto italiano all'ingresso di Gerusalemme, la città degli ulivi e delle pietre. Furono i suoi numeri a persuadere Sharon ad abbandonare Gaza nel 2005, le cifre elaborate per il Rapporto Strategico sul Popolo Ebraico che illustravano come, seppur sconfitti militarmente, i palestinesi avrebbero finito per vincere la guerra demografica. La scommessa dell'ex premier israeliano si è spenta con la sua vita due anni fa, ma Sergio Della Pergola, docente di Studi sulla Popolazione Ebraica all'Università di Gerusalemme e demografo di fama internazionale, è andato avanti, ha raccolto tabelle, grafici, statistiche, in un volume pubblicato dal Mulino che s'intitola La forza dei numeri. E li ha regalati a Israele per i suoi 60 anni.
La politica, da queste parti, sembra piuttosto confusa. Cosa dicono i numeri, professor Della Pergola?
«Il futuro è scritto. Israele non potrà essere contemporaneamente ebraica, democratica e grande. Dovrà rinunciare a qualcosa».
Quale delle tre prerogative suggerirà di sacrificare quando il premier Olmer, come già Sharon, le domanderà consiglio?
«La mia tesi scontenta tutti, gli irriducibili nostalgici dell'utopia della Grande Israele e chi, dopo anni di tentativi di pace abortiti, propone uno Stato binazionale. La prima ipotesi è fuori discussione, ma uno Stato binazionale ucciderebbe l'identità ebraica d'Israele. Oggi gli ebrei sono l'80% della popolazione, nelle scuole però la percentuale scende di 10 punti. Gli arabi fanno più figli: nel giro di 25 anni il rapporto potrebbe mutare sensibilmente fino ad avere il 70% di ebrei adulti e un pareggio o addirittura un sorpasso tra gli under 16. Una minaccia seria per l'identità nazionale. Anche perché, oltre agli arabi, ci sono circa 900 mila immigrati dell'ex Unione Sovietica registrati come israeliani e dunque ebrei pur essendo cristiani ortodossi».
Ricapitoliamo: per restare un Paese ebraico e democratico Israele deve cedere la terra. È così?
«I confini esistono, sono grosso modo quelli del '67 e devono separare il popolo ebraico da quello palestinese. Il massimo della presenza araba che Israele può accettare è il 3%, il resto va assegnato allo Stato palestinese, anche se questo significasse per Israele retrocedere un po' oltre la linea del '67. In fondo la partizione delle Nazioni Unite del 1947 lo prevedeva già. Tra le righe del testo si leggono ipotesi avveniristiche come quella di una popolazione araba residente in Israele che voti per il governo palestinese e viceversa: due identità distinte e vicine che collaborano, per esempio, per costruire fognature comuni. Un'opzione potenzialmente ancora valida».
C'è chi considera gli arabi-israeliani la quinta colonna del terrorismo. L'attentatore della yeshiva Mercaz Harav che il 6 marzo scorso ha ucciso 8 studenti aveva la carta d'identità israeliana. Israele ha costruito una barriera lunga 600 chilometri per scoprirsi il nemico in casa?
«Il muro serve, purtroppo. Se il villaggio dell'attentatore fosse stato tagliato fuori lui non sarebbe arrivato alla yeshiva. Ma il discorso è complesso. Quello degli arabi-israeliani è un mondo variegato, dall'identità fratta, vive in Israele eppure si sente intimamente arabo. La maggioranza è moderata, molti ragazzi scelgono il servizio civile per contribuire alla vita sociale israeliana evitando di fare il militare nei territori palestinesi. Non sono la quinta colonna del terrorismo, ma alcune dichiarazioni dei loro leader, i deputati dei partiti arabi-israeliani alla Knesset, sono a dir poco agghiaccianti».
Lei è considerato l'ispiratore del ritiro da Gaza. A distanza di due anni come interpreta quella scelta di Sharon?
«È un bilancio doloroso. Allora pensavamo che lasciare Gaza avrebbe innescato un circuito virtuoso, che avrebbe prodotto un governo palestinese con cui dialogare. Invece c'è un nuovo fronte di guerra. I calcoli erano giusti, le aspettative ottimiste. L'analisi teorica resta valida ma credo che se oggi abbandonassimo la Cisgiordania Hamas prenderebbe il potere come a Gaza».
Israele spegne 60 candeline. Com'è cambiata la società?
«Israele ha raggiunto un traguardo straordinario sul fronte dell'immigrazione, ha assorbito un'enorme quantità di gente proveniente da tutto il mondo: 600 mila ebrei sono diventati 3 milioni. Diversità e ricchezza che hanno reso un Paese povero competitivo con Spagna, Grecia, Italia. Israele è un modello che l'Europa dovrebbe studiare: migliaia di immigrati immediatamente integrati, uguali in diritti, doveri, possibilità. La politica forse un po' etnica e settaria d'Israele ha garantito rappresentanza a tutti, abbiamo immigrati nominati vicepremier».
Una storia senza ombre?
«No, ci sono nodi irrisolti. Il principale è il rapporto tra religione e Stato. In Israele esiste una forte polarizzazione fra gruppi profondamente tradizionalisti e umanisti globali più secolari, due poli che negli ultimi anni si sono allontanati parecchio. C'è un grande centro equilibrato, il 60% del Paese, ma la politica dei partiti tende a tirare verso gli estremi. E' una considerazione amara valida anche per altri Paesi: la politica, democratica per definizione perchè rappresentativa, finisce per svolgere un ruolo negativo nello sviluppo della democrazia. Ecco la sfida dei prossimi sessant'anni, formare leadership democratiche e funzionali».

Un trafiletto sul dibattito sul libro di Della Pergola, alla Fiera del libro:

Sergio Della Pergola, nato in Italia, vive in Israele dal 1966. È docente di Studi sulla Popolazione Ebraica all'Università di Gerusalemme e ha pubblicato dal Mulino «La forza dei numeri», in cui sostiene l’ineluttabilità della cessione di terra ai palestinesi. Oggi presenterà il suo volume alle 18 in Sala Blu. Con lui ci saranno il giornalista Gad Lerner, il demografo Massimo Livi Bacci e la neo-senatrice Fiamma Nirenstein. Rientra così la polemica tra la Nirenstein e il conduttore de L’infedele: «Gad Lerner mi ha chiesto di ripensare alla mia decisione di non partecipare con lui al dibattito. Apprezzo l'importanza simbolica della richiesta preceduta da una chiara presa di distanza dalle dichiarazioni di Gianni Vattimo contro di me. Lerner ha sottolineato che la semplice idea che lui possa condividere i giudizi del professore torinese è da considerarsi “grottesca e assurda”». La Nirenstein aveva deciso di non partecipare all’incontro perché in una puntata dell’Infedele dedicata al boicottaggio della Fiera, il filosofo Gianni Vattimo l’aveva tacciata di «fascismo» e Lerner «non aveva battuto ciglio».

Un articolo di Avirama Golan:

La scrittrice Avirama Golan è stata ieri fra i protagonisti della Fiera. Ha 58 anni, è giornalista ed ex attrice. È nota per il romanzo I corvi (Giuntina). Ha scritto per La Stampa l’articolo che pubblichiamo.


Una volta, tanti anni fa, ero una studentessa universitaria in un freddo paese europeo. Quattro anni trascorsi adagio e con calma, forse perché ero straniera, forse perché lì non c'era la guerra. Un anno in Israele mi dà l'impressione che ne contenga sei, in un concentrato di: follia, turbine di eventi, tensione, ansia. La trovo una cosa strana, anzi strabiliante, il fatto che pur dentro questo trambusto riesca a sedermi alla scrivania, crearmi una specie di silenzio e ascoltare quella musica che fa una storia: c'era una volta...
Con tutte le mie forze cerco di fare in modo che dentro le mie storie non entrino la polvere e il sangue, le urla e la rabbia e l'odio. Al posto di tutto ciò vengono i ricordi d'infanzia, dolci di miele e salati di lacrime, e un amore sconfinato per il mare e la sabbia di questo paese e per la sua gente che mentre scrivo mi sembra così triste e confusa e smarrita: come dei bambini che camminano intimoriti dentro una casa imbiancata di fresco, con il tetto rosso, immersa nel verde e fra i fiori, ma dalle pareti fragili, con le finestre esposte al vento e un suolo incerto sotto di sé.
Al momento, mi sono presa una pausa: non ascolto né mi dedico all'amata scrittura. Sono venuta a vivere per un anno a Sderot, per cercare di capire da loro la vita qui. Abito non lontano da Tel Aviv, ma in un altro mondo, dove la gente passa per strada rasente ai muri, dove i bambini sono svegliati di soprassalto ogni mattina dal boato dei missili Kassam e corrono con tutti gli altri nella stanza rifugio, sempre che la loro casa ne abbia una.
Gaza è qui vicina, e anche senza vedere che cosa vi succede, penso continuamente ai bambini che vivono lì. So che per quest'anno non riuscirò a scrivere. Sono sicura che dentro quest'anno non mi sembrerà di averne vissuti sei. Cento, forse.


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