Israele festeggia i suoi 60 anni intanto l’Herald Tribune pubblica un appello all'odio, firmato anche da Gianni Vattimo e Vincenzo Consolo
Testata: La Stampa Data: 09 maggio 2008 Pagina: 12 Autore: Aldo Baquis - Jacobo Iacoboni Titolo: «Il compleanno di Israele - Noi non festeggiamo appelo choc sull'Herald»
Da La STAMPA del9 maggio 2008, un articolo di Aldo Baquis:
Sorridenti, distesi, ottimisti: così i dirigenti di Israele si sono presentati all’appuntamento con le celebrazioni ufficiali per il 60.mo anniversario dello Stato ebraico. Certo i primi decenni non sono stati facili: eppure la stragrande maggioranza degli israeliani confermano nei sondaggi d’opinione di essere felici di vivere nel loro Stato, di non meditare affatto di trasferirsi altrove. «Abbiamo uno Stato splendido», ha esclamato mercoledì sera il presidente della Knesset Dalia Yitzik lanciando sorrisi smaglianti a migliaia di persone convenute sulla vetta battuta dai venti del monte Herzl di Gerusalemme, al cospetto della tomba di Teodoro Herzl. «Il nostro Paese - ha aggiunto con foga, come aggiornando in persona l’ideologo del sionismo politico - è una meraviglia secondo ogni criterio storico. Da cento località di dispersione nel mondo abbiamo forgiato un popolo e uno Stato che è un rifugio per i perseguitati». Anche il premier Ehud Olmert - che da una settimana è oggetto di indagini della polizia - è apparso disteso quando, obbedendo ad un rito della Giornata dell’Indipendenza israeliana, ha premiato la vincitrice del «Quiz mondiale della Bibbia»: la quindicenne Zurit Berenson. «E’ un momento unico di felicità distillata, di orgoglio», ha detto Olmert. Ma poche ore dopo ha dovuto cambiare atteggiamento, quando la magistratura ha reso pubbliche le accuse di corruzione nei suoi confronti. Il premier, molto nervoso è apparso in tv per smentire tutto: «Non ho mai preso mazzette, non un soldo per me stesso», ha detto, ammettendo però di aver ricevuto «contribuiti finanziari», da lui ritenuti leciti, dall’imprenditore Morris Talansky. Olmert ha comunque annunciato: «Se la giustizia decide di incriminarmi, mi dimetterò» Una festa guastata per il primo ministro, e una festa che non è stata condivisa da tutto il Paese. Anche ieri ci sono stati combattimenti a Gaza, una madre palestinese è rimasta uccisa. In Galilea una manifestazione di migliaia di arabi in ricordo della Nakba (la dispersione di centinaia di migliaia di palestinesi dovuta alla nascita di Israele, nel 1948) è degenerata in duri scontri con la polizia. Ma di questi episodi l’israeliano medio - determinato a concedersi una pausa e una giornata di svago - ha solo avuto un vago sentore. Come in passato gli eventi ufficiali si sono svolti nei due luoghi principali della memoria israeliana a Gerusalemme: l’austera Spianata del Muro del Pianto, dove si è reso omaggio ai 22 mila caduti in tutte le guerre, e il Monte Herzl, a pochi passi dal Museo dell’Olocausto Yad va-Shem, dove mercoledì sera hanno acceso le fiaccole d’onore quanti - ebrei ed arabi - hanno dato un particolare contributo alla società israeliana. Momenti di autentica commozione si sono avuti quando una delle fiaccole è stata accesa dal quindicenne Oren Almog che nel 2004 perse diversi congiunti e la vista in un attentato palestinese a Haifa e che malgrado la sua menomazione è divenuto un campione di vela. Fuochi di artificio hanno illuminato i cieli di Israele, con l’eccezione di Sderot, dove gli abitanti hanno hanno i nervi scossi dopo anni di attacchi di razzi palestinesi da Gaza. Ieri il tono dei festeggiamenti è stato molto meno protocollare. Masse di gitanti hanno preso d’assalto i parchi nazionali: mezzo milione di persone in Galilea, altrettanti nel centro di Israele, centomila sul litorale di Tel Aviv. Dagli anni ‘70 non si fanno più, in Israele, parate militari vere e proprie con carri armati, cannoni, missili e soldati. L’amore per l’esercito viene espresso in termini molto più familiareschi: ieri quando a Glilot, a nord di Tel Aviv, è stato autorizzato per la prima volta l’ingresso nella prestigiosa base dell’intelligence gli israeliani hanno colto l’occasione per un insperato picnic. Fra relitti di blindati russi, modelli di aerei senza pilota, vicino ad un replica dei fortini degli Hezbollah hanno steso le loro coperte e all’ombra di vecchi eucalipti hanno addentato i manicaretti portati da casa. A breve distanza, nell’isola pedonale della stazione di Tel Aviv - un rettangolo di verde nella metropoli - migliaia di persone erano felici attorno ai barbecue: ad anni luce di distanza dai luoghi delle celebrazioni solenni del Muro del Pianto e del Monte Herzl di Gerusalemme.
Jacobo Iacoboni sembra descrivere come eroi del "libero pensiero" gli intellettuali che hanno firmato un appello contro le celebrazioni dei 60 anni di Israele. Che per loro non doveva esistere:
La sinistra anglosassone, con spregio del pericolo, non teme questo genere di cose. Un gruppo di intellettuali, gente rispettabile, non bruciatori di bandiere, cattedre alla Columbia, commedie in scena a Broadway, concerti rock in agenda al Madison Square Garden, firma un appello intitolato «No reason to celebrate “Israel at 60”!», con tanto di punto esclamativo finale abbastanza gridato. Sono, dicono, contro sessant’anni di «spoliazione sistematica» subita dai palestinesi. Si ispirano alla lezione di Edward Said, l’orientalista palestino-americano di Columbia University, scomparso due anni dopo l’11 settembre. L’appello compare sull’Herald Tribune International, costola del New York Times, in una mezza pagina pubblicitaria collocata significativamente nella pagina degli op-ed. I commenti. Immaginate cosa sarebbe successo in Italia. Nel clima surriscaldato che circonda l’edizione 2008 della Fiera del Libro di Torino, l’iniziativa - lanciata dal network delle ong palestinesi - sarebbe al limite stata accolta da giornali della sinistra antagonista, mentre qui siamo dinanzi a una grande inserzione pubblicitaria comprata dentro un giornale liberal, come è l’ambiente del Nyt, e con proprietà e board editoriale non certo alieni - eufemismo - dal milieu intellettuale ebraico-newyorchese. È la sinistra postmoderna, bellezza. La lista dei firmatari dell’appello contiene due nomi italiani, Gianni Vattimo, il professore idolo dei boicottatori della Fiera del libero dedicata a Israele, e lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo, non facile di solito a concedersi a iniziative del genere. C’è il classico Ken Loach, il regista di Bread and the Roses, eterno militante di ogni causa radical, ma anche Roger Waters, bassista e cantante dei Pink Floyd, l’uomo che ha scritto per intero l’album leggenda del 1980, The Wall, sui temi dell’alienazione, la separatezza fisica, la distanza e le barriere che opprimono le persone. E ancora, scrittori come John Berger, filosofi come lo spagnolo Juan Goytisolo o come Judith Butler, commediografi come Naomi Wallace, poeti come lo scozzese Tom Leonard, intellettuali ebrei newyorchesi come Ella Shohat, professoressa di sociologia e di storia del cinema a New York, figlia di ebrei iracheni... C’è Tariq Ali, il che è ovvio, ma anche Demis Roussos, cantante greco dall’indimenticabile stazza. Oppure il violinista classico inglese Nigel Kennedy accanto a Marcel Khalife, star della nuova musica libanese. Ci sono anche israeliani critici, il poeta Aharon Shabtai, lo storico Ilan Pappe, il regista Eyal Sivan. L’appello è assai più duro della richiesta del semplice boicottaggio di un Salone del libro, poiché investe non un’iniziativa culturale, né un governo, criticabile come qualunque altro, bensì la legittimità stessa dello stato. «Israele - recita - è uno stato che nega ancora ai rifugiati palestinesi i loro diritti sanciti dall’Onu, semplicemente perché sono dei “non ebrei”. Resta illegale l’occupazione delle terre palestinesi e delle altre terre arabe, in violazione di numerose risoluzioni Onu». Ora, non è la prima volta, non sarà l’ultima che accade. Nel 2006 a Londra un gruppo di prominenti intellettuali ebrei di sinistra radical - tra loro nomi come il drammaturgo Harold Pinter, lo storico Eric Hobsbawm, l'attore Stephen Fry, il regista Mike Leigh - scrisse una lettera al Guardian per dire che il sostegno a Israele non può essere messo al di sopra dei diritti umani dei palestinesi. Fossero stati negli Stati Uniti, al massimo, sarebbero finiti nel mirino dell’American Jewish Committee, che all’epoca accusò i più importanti intellettuali ebrei e liberal americani - dal linguista radical Noam Chomsky allo sceneggiatore di Spielberg Tony Kuchner, da Richard Cohen, editorialista della "Washington Post", a Tony Judt, guru di "The Nation" - di fomentare un revival antisionista che non è altro se non «la forma che prende gran parte dell'odierno antisemitismo». Fossero stati in Italia, chissà, sarebbero finiti al corteo di domani. Assieme al Forum pro Palestina.
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